Ennio Abate
Intervento della luna sulle poesie alla medesima ispirate
Leopardi di Tullio Pericoli
I
Rispondo a quel pirla che s’è chiesto: Ma la luna vuol parlare con noi?
E al critico che ha proposto a ‘sta banda di sciammannati
di tornare a parlare con me.
Sì, che voglio parlare. Ma di voi, omini miei, poetucci miei.
Per dirvi basta con ‘sto pigolio: oh, luna, oh, luna!
E che non son io, miei menestrelli, mie diarree di sentimentini mielosi,
a suggerirvelo.
Io sono il maledetto pipistrello tondo,
immobile e bianco, caricato nei secoli di vostri deliri
e viltà, dei vostri serali spasmi cagasotto,
di incensi e lussuriette tinteggiate di spleen.
E inchiodata quassù, vostra guardiana condannata ai turni,
or di una parte or dell’altra delle vostre notti
sento tutto ‘st’orrore che, incapaci, costruite perenne.
II
«Io abito la luna»…
Ma chi è ‘sta sfacciata che dice una cosa simile?
Da quando è venuta in casa mia ad abitarla?
E a chi paga l’affitto?
Eh, no, cara e cari miei, manco ai veri matti che lo meriterebbero
permetto d’abitare con me!
Che mi parlino o straparlino pure e a lungo,
mi dedichino poesie e poesiole;
e che, appena spunto in cielo, i più accaniti continuino
a leccarmi, a corteggiarmi,
a farmi le fusa come gatti in calore.
Ci sono abituata. Non mi sento di scacciarli. Li tollero.
Ma che siano veri e non falsi. Che mi vogliano bene.
Come me ne volle l’intelligente gobbetto prim’Ottocento.
Che mi parlava, fingendosi pastore, e mi amava.
Alla giusta distanza. Saggio, solitario, non gli veniva
in mente di coabitare con me, ma soltanto sognava di portarmi per mano,
mi chiamava – decrepita ero, oddio! – giovinetta immortale.
E con lui me ne stavo quieta, in silenzio.
In silenzio.
III
E non lo sapeva lui, no, quanti stronzi e stronze
sarebbero venuti dopo a sedurmi, a strapazzarmi,
a contarmi i loro incubi, gli affanni, le voglie,
a divinizzarmi (ah, quel D’Annunzio!),
a farsi belli e bellocce di me.
Tutti con la fissa che, mio prediletto confidente,
Giacomo fosse, per ciò, divenuto gran poeta.
E pure loro volevano provarci, farsi suggerire
da me, la luna, il verso giusto, ottenere da me
un ritmo lunare, che piacesse persino al critico solare
per fare yin e yang con lui, e raggiungere la fama,
la premiazione,
mediante una mia illuminazione.
IV
Ah, i poeti, i poeti! Sempre storditi m’hanno guardata.
Cercavano e non sapevano. (Non volevano sapere!)
Cascavano le loro menti come pere cotte nel dolore
o nella finzione d’un bel dolore.
E credevano, credevano in me, e chissà nella Poesia
e chissà in Dio, e chissà in che.
Ma era la loro anima fredda che si coccolavano
fingendo di parlare con me.
Era la parte oscura e silenziosa delle parole
che si lucidavano ammirando il mio pallore.
Io con le loro poesie non c’entro.
Di esse sono solo l’alone. E del sesso turgido di qualcuno.
O delle fantasie delle Bovary.
Sono solo l’alone che accompagna le vostre tante morti.
Eh, sì, vi conosco mascherine! Sono secoli che vi studio.
Di notte, sì, quando sono di turno. E lo stesso ritrovo
le tracce di quel che fate di giorno
sui vostri volti sfatti, nei modi di accucciare i vostri corpi nei letti.
Ho visto come vi amate e toccate al mio chiaro.
Come vi uccidete ho visto.
L’ultime occhiate del moribondo in ospedale ho visto.
E del condannato a morte. E quelle sperse dei prigionieri
sempre. E degli affaticati nelle fabbriche per turni
ben più duri dei miei.
V
Ho illuminato chissà quante armate crudeli avanzanti,
e flottiglie di bombardieri nel gelo dei cieli europei e giapponesi,
e corazzate sull’onde marine lucenti di me, e satelliti giocattoli,
e animali notturni in cerca di prede, e carovane di camion
e tetti, e cime innevate di monti.
Ed ho illuminato, ahimè, il cammino degli assassini,
gli sciami serali di folle all’uscita di teatri di cinema di stazioni,
il passeggio delle puttanelle di strada; e stanze, cessi, cucine,
i cimiteri silenziosi, le foreste atterrite e le vaste pianure,
dove la mia luce tutta si sdraia.
VI
E sorvegliandovi, purtroppo, mi sono riempita
delle vostre storie. Poche le belle, luride in abbondanza tante.
E sempre meno mi piace, all’alba, perdere di vista gli uni
e mettermi a sorvegliare gli altri
– gli uni, gli altri, finire un turno, cominciarne un altro,
e poi ancora – ripetizione o eternità.
E cogliere impercettibili o d’un tratto sconvolgenti
i vostri mutamenti – ora degli uni ora degli altri.
Sempre con morti, feriti, grida, strazi, òdii pronti
allo scatto omicida.
Vado dall’altro lato, vi dimentico. Torno e vi ritrovo.
Cambiano lentissimi i paesaggi. E quasi vorrei morire con loro
e con voi.
Non continuare l’incessante sorveglianza da notturnista.
Ma, ecco, ho finito il mio giro. Vi ho detto. Vi saluto e vado.
(agosto/settembre 2013)