Archivio | Maggio, 2013

Francesco Marotta, I privilegi dell’ignoranza

30 Mag
I privilegi dell’ignoranza

 

 

Giovanni Campi
Francesco Carbone

 

scompaginate pagine & sparsi appunti

 

“Quadratura del cerchio.
Non si sa cosa sia, ma bisogna alzare le spalle quando se ne parla.”
(Gustave Flaubert, Dizionario dei luoghi comuni)

 

“Qualunque cosa tentiamo di pensare, e comunque la pensiamo, noi pensiamo nell’alveo della tradizione. […] Soltanto quando, pensando, ci rivolgiamo al già pensato, siamo impiegati per ciò che è ancora da pensare”(1).

 

La tradizione, italica, cui fa riferimento Francesco Carbone, nel suo “I privilegi dell’ignoranza“, non è quella del romanzo, che, tanto per intendersi, discende da “I Promessi Sposi“, sibbene quella dei trattati, quella cioè, per restar coevi al Manzoni, appartenente alla famiglia delle “Operette Morali” di Leopardi, trattatistica che ha, ce lo ricorda lo stesso autore, antecedenti illustri nei capolavori in cinque righe de “I Ricordi” del Guicciardini o di trecento pagine come “Il Libro del Cortegiano” di Baldassar Castiglione; e, esterofilizzandosi, padre loro putativo, e dell’autore e del libro, ma anche nostro e di chi ami il felice vanverare, è il “Tristram Shandy” di Laurence Sterne, ma già ché non si sia figlj d’un sol padre, v’aggiugnerei, quali padrinostri, i “Don Chisciotte” di tutte le salse, sí! – ma di quei gran gourmet dell’arte della divagazione che hanno il nome di Cervantes Borges Welles.

La legge, – ché sí!, – ci avvisa la quarta di copertina, – siamo pur sempre dinanzi a un tentativo di leggere, da parte di cinque madrigalisti, e magari per intiero, la Critica della ragion pura di Kant, e dunque quale espressione migliore pel tribunale della ragion critica di codesta legge?, – la legge, dicevo, la legge dell’unità triadesca di luogotempoazione non ha da esser né cercata né ricercata né, per ciò, tampoco ritrovata, il luogo il tempo l’azione essendo tutti i luoghi tutti i tempi tutte l’azioni e nessuno: “ogni cosa tutte le cose (2)”, e nessuna. L’unità aristoteliche tirate qui in ballo d’emblée sono suggerite dall’elenco, in primis, come tradizione vuole per ogni scrittura teatrale, dei personaggj che popoleranno le pagine di questo libro, e che sono appunto i cinque madrigalisti, immanuel kant, l’anno 1781, la marchesa di merteuil e tre film: ma ecco che fc, chiamerò cosí d’ora in poi l’autore, va oltre il dettato manganelliano del personaggio, secondo cui appunto “il personaggio è raccontato in guise scisse, che mi pare l’ultima astuzia per moltiplicare i personaggj senza perder tempo a farli diversi fisicamente & moralmente; ecco, questo mi dà noja, che i personaggj debbano avere degli elaborati quadri connotativi, ma – grasso che cola! – se hanno un nome e cognome, che vanno cercando, di grazia?, anche una descrizione verosimile dei bitorzoli? (3)”; va oltre ogni teoria della verosimiglianza non assegnando loro nemmanco un nome & cognome, se non nel caso di immanuel kant cui connota non piú d’una parrucca, e in quello della marchesa, una sorta di personaggio al quadrato, o alla radice quadrata, essendo, come ognun sa, di già la protagonista de “Le relazioni pericolose” di de Laclos. Ma m’accorgo ora d’aver scritto – e scusate il bisticcio, mi capitano sovente codesti guittoguittoniani, – d’aver scritto scrittura teatrale: si tratta allora d’un testo teatrale? e di che genere? è forse una tragedia come la triunità vuol sottintendere? ma qui, lo si è detto, non c’è trama, né “consolazione della trama (4)”, i tempi son confusi, la stessa marchesa millesettecentesca, per esempio, è visitata da fantasmi provenienti dall’oggidiano, e i luoghi spaziano – altero bisticcio – per “spazj infiniti & sovrumani silenzj(5)”, per cui se teatro può darsi è quello tesauriano “pien di meraviglie“, ed è davvero tale, un susseguirsi di, leggere questi privilegj: “però che dalla maraviglia nasce il diletto, come da’ repentini cambiamenti delle scene e da’ mai più veduti spettacoli tu sperimenti(6)”, tanto per restar nella metafora. Si sa, d’altro canto, che da Flaubert, altro nume del nostro, da Flaubert in poi non può darsi piú tragedia, ma solo farsa, e dunque “prata rident(7)”!

Ad ogni personaggio è associato un ruolo, musicale: si va dal coro in eco per i cinque madrigalisti al baritono, basso, mezzosoprano e tenore per gli altri, quasi a volerci significare che il teatro in questione è adibito alla musica, una sorta di frammezzo tra teatro & musica da camera in cui inscenare, per esempio, una sonata, o anche un divertissement. E bene, quel che alla lettera ci significa una recita per pochi, il kammerspiel, ecco che diventa da subito un giocare & suonare insieme: abbandonando il ruolo di semplici lettori, di semplici spettatori, ci si immerge in questo piacevole conversare tra chicche & chiacchiere, e si diventa, noi, come uno di loro(8). Gianni Celati lo dice, chi sa dove, benissimo: “credo che la letteratura sia essenzialmente un fenomeno asociale; tuttavia […] non ha nessun senso come impresa soggettiva: esiste solo come pensiero collettivo, [che] in latino si diceva animus communis […]: chi scrive è soltanto un filo elettrico che porta una corrente sempre collettiva, sempre al di là di lui (9)”.

Ora, pur sapendo che sia il teatro che la musica da camera, e allo stesso modo la sonata, han da rispettare la triade, nel caso nostro, che è privilegiato, il luogo viaggia per istanti eterni, il tempo per multuniversi mondi, e l’azione agisce e non agisce, è agita e non agita: la stessa camera è una camera, tutte le camere, e nessuna.

Immaginiamo per esempio che la camera sia quella oscura; che “non [avendo] porte né finestre […] ogni azione [sia] interna”; che “non avendo fenditure, vi [sia] stata sigillata una luce“: ecco che “la camera oscura” risulterà avere comunque “una piccola apertura in alto, attraverso la quale la luce pass[erà] (10)” a projettare la nostra capovolta visione, quel che l’occhio “non vedeva, e ora vede (11)”, fosse pure, quell’apertura, solo “un errore nel sistema matematico del mondo, […] una crepa, un varco, quello che […] Montale chiamò ‘l’anello che non tiene’, perché il miracolo del reale si manifesti (12)”, o addirittura solo un azzardo, una scommessa che appunto vi fosse, tacendone se vinta o persa.

Immaginiamo ora in vece la camera essere quella cinematografica, – fc, – sia detto per inciso, – è anche autore di cortometraggj, – e sia sufficiente alla nostra morta immaginazione il fatto che, come già accennato, tra i personaggj del non romanzo vi figurino appunto tre film, e precisamente ai cap. 22 (Lo spostato), 37 (Le mani), e 52 (Il niente). Il primo film, intitolato semplicemente al nome della protagonista, Clunny Brown, in Italia uscí con Fra le tue braccia, è dell’ultimo Lubitsch, del quale in esergo è citata la frase “fa tanto bene parlare con un altro spostato”, ma, a chiarificare il senso del capitoletto, c’è un doppio esergo che riporta qualche riga del Diario della mai tanto amata dal nostro Etty Hillesum: “sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell’anno del signore 1942, l’ennesimo anno di guerra”(13). Questo “senso [che] non si dichiara ma si manifesta”(14) è la grazia di amendue: Belinski, il protagonista lubitschiano, è “l’uomo della favola zen che, sospeso sull’abisso, aggrappato a una radice che sta per essere recisa, s’entusiasma del sapore di una fragola”(15); ed Etty, “lei andò a morire in un lager ‘cantando’”(16), la qual cosa, un po’ forse follemente, la vado a ricondurre al dialogo finale dei nostri cinque in cui si chiedono, l’un l’altro, “dove stiamo andando?”, e si rispondono che: “parliamo sempre troppo, – sempre, – allora basta: cantiamo”(17)! Ma vogliate perdonare questo mio non altro che scimmiottamento, e nemmeno fatto per rammemorare un qual certo topos proprio alla nostra tradizione, l’imitatio, usata per esempio da Petrarca in una delle lettere il cui destinatario era Boccaccio: “si può valersi dell’ingegno e del colorito altrui, non delle parole; poiché quell’imitazione rimane nascosta, questa apparisce, quella è propria de’ poeti, questa delle scimmie”(18), per le quali ultime cose, il non dover parlare sempre troppo e l’esser niente piú che una nemmanco esimia simia, accennerò soltanto agli altri due film e capitoli relativi, limitandomi a dire che il secondo ci narra de “Le luci della città” di Chaplin e il terzo di “Mezzogiorno di fuoco” di Fred Zinnemann, e che amendue, e con il primo amentre, riguardano, come ci dicono i medesmi titoli, la legge morale kantiana.

Con ciò sia cosa che, non oltre ardendo l’immaginazione nostra, e per limitare la bruttezza della brutta copia rispetto all’originalità dell’originale, si concluda la carrellata cameristica, – e notate però quale finezza sia codesta espressione, – con la camera intesa alla lettera, sí, ma non d’una casa tout court, né d’albergo, piú tosto d’un castello: ecco, immaginiamo essere la camera quella d’un castello. Ebbene, questo castello sia a mezzo tra quello kafkiano e quello ariostesco: d’un lato sia dunque il maniero, “l’enorme maniero incombente, la cui ombra nella piú parte delle ore quasi spegneva l’intero villaggio”(19), dall’altro lato sia in vece come il castello-trappola di Atlante nel xii° canto dell’”Orlando furioso”, quel “ch’all’apparir dispare”(20). A testimonianza dell’un caso, in cui è citata una menoma riga, si dirà che proprio questa fu parte d’una minuta dell’autor Francesco corrisposta a me, Giovanni scimmiottautor, illo tempore, quasi a rinnovellare quella epistola suddetta tra il Petrarca e il Boccaccio, riga poi trasposta pari pari se non soltanto con dei “riflessi del” in piú nel primo capitolo del testo dato alle stampe, e minuta intitolata per allora, indovinate un po’, appunto “Il castello di Kant e i privilegi dell’ignoranza”, e però pur anco altere prove & riprove, – ah! questo lessico tribunalizio, – son disseminate “or quinci or quindi”, in “alto & basso”, “di sopra di sotto“, “di su di giú”, “di qua, di là“, in lungo & in largo e nella minuta e nell’editato, cosí che dall’incombenza dell’un caso ci siamo introdotti per ogni dove nel virgolettato “palazzo strano” dell’altro, “tutti cercando il van“(21).

Ecco, guardate un po’ com’è come non è, “l’arguta anfibologia sintattica d’Ariosto“(22) mi dona un’ulteriore double bind, questa volta a livello semantico, che fa di me quasi un caso cronico di cerebro leso da il divide et impera, ma senza risolvermi alla risoluzione né alla soluzione, ed anzi, problematizzandomi vieppiú, cosí che ogni cosa è davvero tutte le cose, e nessuna, anche un algoritmo top-down, o bottom-up che sia, chiedendomi – è forse Ariosto l’inventore di? Ma queste son solo ragion comiche del mio folleggiare, non seguitemi sempre nel mio sdire, Vi prego. Dicevo piuttosto della nuova incertezza che mi si frapponeva a proposito de il van: che sia finalmente questa la camera che si sta cercando? un vano vano? un vano al quadrato? ah, la langue che langue!

Questo è d’altronde il secretum d’ogni castello, d’avere camere nelle camere sol pigiando una lettera o una parola o una frase o un periodo di quel libro che è tutti i libri(23), d’avere segrete segrete: ecco aprirsi nascondiglj, botole, sotterranei e/o iperuranj, scantinati & soffitte; e porte e specchj infiniti; e scale, le insuse, le ingiuse. “Corre di qua, corre di là, né lassa / che non vegga ogni camera, ogni loggia: / poi che i segreti d’ogni stanza bassa / ha cerco invan, su per le scale poggia; / e non men perde anco a cercar di sopra, / che non perdessi di sotto, il tempo & l’opra“(24). Ne l’opra “ci si mette quello che si ha. Se la Critica è ancora un maniero, è proprio un castello di Ariosto: ognuno vi insegue il suo sogno“(25). E dunque: “Qui dimorar potrei, / gittare il tempo e la fatica invano“(26).

E allora, come chiusi in cerchio, ma senza chiuderlo, né quadrarlo, “ché quasi tutta cessa mia visïone“(27): “qual è ’l geomètra che tutto s’affige / per misurar lo cerchio, e non ritrova, /pensando, quel principio ond’ elli indige, / tal era io a quella vista nova: / veder voleva come si convenne / l’imago al cerchio e come vi s’indova: / ma non eran da ciò le proprie penne“(28), – figurarsi noi, che, intrappolati nel labirinto-gabbia, vittime felici delle nostre stesse ossessioni, non ci si può che mancare, tutto oblïando, e fallire, fallire sempre, fallire ancora(29), in ispecie leggendo la Critica: “in Bouvard et Pecuchet Kant è citato, ma senza riconoscergli particolare gloria. […] Le incursioni nella metafisica dei due dilettanti allo sbaraglio non ebbero esiti diversi dalle scorribande azzardate in tutte le altre discipline: “Troppi sistemi per raccapezzarcisi!” La filosofia è un’altra branca dell’enciclopedia dei loro fallimenti: Stan Laurel & Oliver Hardy perduti in biblioteca“(30).

 

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Note

(1Martin Heidegger, Identità & Differenza
(2Jorge Luis Borges in calce & nota a L’appressamento ad Almotasim : Anche Plotino – Enneadi, V, 8, 4 – enuncia un’estensione paradisiaca del principio di identità: “Tutto, nel cielo intelligibile, è dappertutto. Qualsiasi cosa è tutte le cose.”
(3Giorgio Manganelli, Encomio del tiranno
(4) Francesco Carbone in sede di presentazione del suo I privilegi dell’ignoranza
(5Giacomo Leopardi, L’infinito
(6) & (7Emanuele Tesauro, Il cannocchiale aristotelico
(8fc intitola il capitolo 5° dell’op. cit. cosí: “il noi narrante, che qui si dice loro”
(9Gianni Celati,
(10Gilles Deleuze, La piega
(11Paul Valery, Quaderni
da (12) a (17fc, op. cit.
(18Francesco Petrarca, Familiari, xxiii
(19fc, minuta de Il castello di kant e i privilegi dell’ignoranza, poi in op. cit.
(20) Madrigale da la Selva morale e spirituale di Claudio Monteverdi in op. cit. di fc
(21Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, canto duodecimo
(22Lucia Tosi, definizione data in sede di commento a le ‘scompaginate pagine‘ in progress
(23) “ogni volume che si percorre, piú che un’unità in sé compiuta, diventa uno dei capitoli infiniti dell’unico libro che si cominciò a leggere incantati nell’infanzia e che s’interromperà quando moriremo“: fc, op. cit., cap. 49, Autunno della lettura
(24Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, canto duodecimo, ix, 3-8
(25fc, op. cit., cap. 38, Le biblioteche
(26Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, canto duodecimo, xiii, 3-4
(27Dante, Commedia, Paradiso, xxxiii, 61-62
(28Dante, Commedia, Paradiso, xxxiii, 133-139
(29Samuel Beckett: “Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio.” – da Peggio tutta
(30fc, op. cit., cap. 34, B&P
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f la sala,dopo don milani e il referendum di Bologna

30 Mag

 

dopo don milani e dopo il referendum di bologna, un arrampicarsi sugli specchi….
. sal
 
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COSTITUZIONE, SCUOLA PUBBLICA,  E CHIESA CATTOLICA: A CHE GIOCO GIOCHIAMO?!  Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica “Deus caritas est” (2006) e, ancora oggi, nessuno (nemmeno Papa Francesco) ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!! 
DOPO DON MILANI E DOPO BOLOGNA: LA LIBERTA’ E LA GIUSTIZIA EDUCATIVA, (ANCORA)  ALL’OMBRA  DELLA CARITA’ “POMPOSA! Una riflessione di Fulvio De Giorgi – con note
Il 90° anniversario della nascita di don Lorenzo Milani (27 maggio 1923) è giunto pressoché contemporaneamente al referendum bolognese sulla scuola dell’infanzia che ha riacceso un dibattito nazionale ancora sui diritti e sulla natura pubblica della scuola cattolica.
 
a c. di Federico La Sala
Materiali per rifletterere:

 

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Della giustizia educativa
di Fulvio De Giorgi
in “Viandanti (www.viandanti.org) del 29 maggio 2013
Il 90° anniversario della nascita di don Lorenzo Milani (27 maggio 1923) è giunto pressoché contemporaneamente al referendum bolognese sulla scuola dell’infanzia che ha riacceso un dibattito nazionale ancora sui diritti e sulla natura pubblica della scuola cattolica.
Non intendo riprendere la questione della libertà educativa , peraltro segnalata dal card. Bagnasco nella sua recente prolusione all’assemblea della CEI, nella quale ha affermato: “ancora una volta chiediamo che si riconosca concretamente il diritto dei genitori a educare i figli secondo le proprie convinzioni. Sempre di più, invece, sono costretti a rinunciare sotto la pressione della crisi e la persistente latitanza dello Stato”.
Ascoltare il racconto di chi soffre
Senza negare la questione della “libertà”, mi pare più urgente, alla luce dei segni dei tempi, sviluppare qualche considerazione, proprio alla luce della lezione milaniana, sulla questione della giustizia educativa . Siamo infatti, come ha detto il papa ai vescovi italiani, “consapevoli della debolezza della nostra libertà, insidiata com’è da mille condizionamenti interni ed esterni, che spesso suscitano smarrimento, frustrazione, persino incredulità. Non sono certamente questi i sentimenti e gli atteggiamenti che il Signore intende suscitare; piuttosto, di essi approfitta il Nemico, il Diavolo, per isolare nell’amarezza, nella lamentela e nello scoraggiamento”. Ritroveremo, invece, “la gioia di una Chiesa serva, umile, fraterna”, se saremo “capaci di ascoltare il silenzioso racconto di chi soffre e di sostenere il passo di chi teme di non farcela; attenti a rialzare, a rassicurare e a infondere speranza. Dalla condivisione con gli umili la nostra fede esce sempre rafforzata: mettiamo da parte, quindi, ogni forma di supponenza, per chinarci su quanti il Signore ha affidato alla nostra sollecitudine”.
“Esclusivamente o di preferenza”
Queste bellissime parole del papa – delle quali avvertiamo l’importanza e che speriamo siano presto valorizzate, sul piano pastorale complessivo, dalla Chiesa italiana – ci suggeriscono che, nel discutere delle “scuole cattoliche” con un atteggiamento di dialogo verso tutti, non dobbiamo dimenticarci il loro carisma d’origine, quasi direi la loro ‘ragione sociale’: che se per qualche congregazione insegnante è stata l’educazione delle classi dirigenti, per la maggior parte è stata l’educazione del popolo.
Il Concilio Vaticano II ha invitato Pastori e fedeli ad aiutare le scuole cattoliche affinché possano “venire incontro soprattutto alle necessità di coloro che non hanno mezzi economici o sono privi dell’aiuto e dell’affetto della famiglia o sono lontani dal dono della fede” ( Gravissimum educationis , n. 9). E la Congregazione per l’Educazione Cattolica ha precisato: “Poiché l’educazione è un efficace mezzo di progresso sociale ed economico dell’individuo, se la Scuola Cattolica rivolgesse le sue cure esclusivamente o di preferenza ai membri di alcune classi sociali più abbienti contribuirebbe ad affermare la loro posizione più vantaggiosa rispetto ad altre e favorirebbe un ordine sociale ingiusto” (La scuola cattolica, n. 58).
La lezione di don Milani
E questo, appunto, ci ricorda don Milani. In Lettera a una professoressa i ragazzi della scuola di Barbiana rimproveravano la scuola statale di far parti uguali tra poveri e ricchi. E aggiungevano: “Certe scuole di preti sono più leali. Sono strumento della lotta di classe e non lo nascondono a nessuno. Dai barnabiti a Firenze la retta d’un semiconvittore è di 40.000 lire al mese. Dagli scolopi 36.000. Mattina e sera al servizio d’un padrone solo. Non a servire due padroni come voi”.
Oggi la situazione è molto cambiata, ci sono congregazioni religiose silenziosamente impegnate sulla frontiera della povertà, ma vale, comunque, sempre la domanda: che dire di una Chiesa povera e per i poveri (secondo la prospettiva conciliare, riaffermata da papa Francesco) che gestisse scuole per i ricchi? Sarebbe certo un suo diritto, legale e legittimamente acquisito, ma avrebbe senso? Sarebbe segno evangelico? Renderebbe veramente manifesta e comprensibile a tutti la sincerità (senza interessi o secondi fini) dell’azione della Chiesa? Non dice il Concilio che la Chiesa “rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso potesse far dubitare della sincerità della sua testimonianza” (Gaudium et spes, n. 76)?
Fare strada ai poveri senza farsi strada
Sul presente delle scuole cattoliche è difficile dire una parola unica, tanto diverse sono le esperienze. Sicuramente, tuttavia, il loro futuro, come le loro origini, sta nel fuggire – per usare le parole del papa – “la lusinga del denaro e i compromessi con lo spirito del mondo”, e dunque – per usare accenti milaniani – nel fare “strada ai poveri senza farsi strada”. Gli allievi delle scuole cattoliche dovrebbero essere, nella maggioranza, figli dei poveri, degli extra-comunitari, degli emarginati o senza famiglia o disabili. Se la libertà educativa vuole che le scuole cattoliche siano aperte a tutti, la giustizia educativa vuole che esse diano il meglio delle loro energie pedagogiche agli ultimi. E solo così – nella classifica evangelica ed escatologica delle scuole – saranno le prime.
E certamente un gesto significativo – per segnare una svolta pastorale verso una nuova evangelizzazione, cioè verso un annuncio del Vangelo, non delle strutture – sarebbe se la CEI dedicasse una parte dell’8 per mille ad aiutare quelle scuole – senza differenze tra statali, comunali o autonome paritarie – che danno il meglio per i figli dei poveri. Sarebbe veramente la “parte milaniana”.

 

  Fulvio De Giorgi
  Docente di Storia dell’Educazione all’Università di Modena e Reggio Emilia. Coordinatore del Gruppo di Riflessione e Proposta di Viandanti.

 

PER MATERIALI SUL CASO BOLOGNA, CFR:
 
 
Giovedì 30 Maggio,2013 Ore: 15:51

«Il Dialogo – Periodico di Monteforte Irpino»
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Federico La Sala
Milano
30/5/2013
16.34
Titolo:ROMA. la santa alleanza tra Curia e Alemanno….
No al laicista Marino, la santa alleanza tra Alemanno e Curia 
 
I cardinali Vallini e Fisichella offrono aiuti e consigli al sindaco: incontro negato al chirurgo Pd 
 
di Carlo Tecce (il Fatto, 30.05.2013) 
 
Se vuoi un miracolo, terreno, non puoi che bussare in Vaticano. E il privilegio di cui gode Gianni Alemanno, il sindaco uscente, non è poco rilevante: non deve bussare ai portoni santi perché quei portoni, già aperti per il primo turno, sono spalancati per il ballottaggio con Ignazio Marino, cattolico adulto, troppo per essere un interlocutore affidabile. 
 
NON È UN MISTERO, e di trasparenze spesse il Vaticano si ammanta, che Alemanno (giorni fa) abbia incontrato il cardinale Agostino Vallini, plenipotenziario per la diocesi di Roma e monsignor Rino Fisichella, presidente del Consiglio pontificio per la nuova evangelizzazione: strategie, consigli, rassicurazioni. 
 
E non stupisce che la stessa Santa Sede, che osserva con tensione e timore la caduta di Alemanno, abbia rifiutato qualsiasi contatto con il chirurgo, qualsiasi colloquio, seppur diplomatico e formale, che il candidato democratico ha chiesto nelle scorse settimane. In questi dieci giorni abbondanti che separano la capitale dal prossimo sindaco, il Vaticano è mobilitato, non sono rassegnati, non sono schiacciati dal peso di una rimonta numericamente improbabile, se non proprio impossibile: 12 punti di distacco, il doppio rispetto al primo turno con Rutelli di cinque anni fa, ma Alemanno ci crede, “ce la faremo”. Un aiuto santo può servire: “Non possiamo consentire la vittoria di Marino, un uomo che vuole secolarizzare la società italiana. Le parrocchie, i sacerdoti e persino le suore sono chiamate a svolgere un ruolo di protezione”, dicono con enfasi dentro le mura leonine. 
 
Marino ha cominciato la compagna elettorale con quel tratto laico, e non laicista, di un medico che si definisce un cattolico praticante. Ha promesso il testamento biologico e le unioni civili, temi che fanno inorridire la curia romana: voleva rimarcare i suoi principi, quasi rompere la tradizione che spinge il Campidoglio verso il Vaticano per cancellarne le distanze. I sondaggi (e il pragmatismo) hanno persuaso Marino: meglio dare segnali distensivi, meglio allargare i confini. Si è concesso persino un saluto in udienza pubblica con papa Francesco. 
 
E COSÌ, mentre Alemanno reggeva lo striscione durante la “Marcia per la vita”, il chirurgo ha smussato, precisato, finanche emanato segnali di comprensione e vicinanza al movimento ultracattolico: “Non partecipo perché non voglio strumentalizzare politicamente un’iniziativa giusta. Io sono per la difesa della vita in ogni suo stadio, ma non si può prendere parte alla marcia solo perché le elezioni comunali sono vicine. 
 
L’impegno deve essere quotidiano e lontano dai riflettori mediatici”. Non è bastato, però, per il candidato che vuole condizionare, parole sue, “il governo nazionale istituendo un registro per le coppie omosessuali”. I collaboratori di Alemanno, per agire in simbiosi e sincrono con la Chiesa, preparano l’offensiva: cartelloni e manifesti per dire che soltanto Gianni da Bari può garantire la famiglia tradizionale. 
 
Il sindaco ha recuperato le varie incomprensioni con il cardinale Vallini e, caso più unico che raro, riesce a mettere insieme, fra i suoi grandi elettori, anche Tarcisio Bertone, il segretario di Stato e monsignor Georg Ganswein, assistente personale di Benedetto XVI e asse portante fra il papa emerito e papa Francesco. L’arcivescovo Rino Fisichella, che conosce la politica e ne espiava i peccati quando era cappellano di Montecitorio, fa da raccordo fra il Campidoglio e il Vaticano, fra Alemanno e i curiali. Per riconoscenza e ammirazione, il sindaco di Roma – unico amministratore assieme al collega di Brescia, Adriano Paroli – lo scorso gennaio è andato in pellegrinaggio in Terra Santa proprio con Fisichella. 
 
LA CONFERENZA episcopale, attraverso il quotidiano Avvenire, non ha coperto le sue posizioni: Marino significa pericolo. L’ex ministro nel governo di Berlusconi, discepolo non fedelissimo di Gianfranco Fini, ha piazzato capolista l’ex assessore per la famiglia, Gianluigi De Palo, politico di origine ruiniana, nel senso del cardinale Camillo Ruini e del suo metodo pratico di affrontare le istituzioni. Né Ignazio Marino né Alfio Marchini hanno ricevuto ospitalità dal Vaticano e pensare che Alemanno, per il funerale di Pino Rauti (suocero) ha convocato a Roma Giovanni D’Ercole, vescovo ausiliare a L’Aquila. D’Ercole, fra i saluti romani, si è dovuto giustificare: “Sono qui per amicizia con Gianni

Gian luca Cataldo, Anfibologia divertimenti

30 Mag

 

30 maggio 2013
Pubblicato da Andrea Raos

 

di Gianluca Cataldo

Anfibologia

Il vecchio Anfisbena – come solevano chiamarlo amici, nemici e parenti – si era ritrovato a passare davanti a uno specchio che da sempre era appoggiato al muro del corridoio, lungo lungo la cui lunghezza era interrotta proprio e solamente da quello specchio, che mai Anfisbena aveva notato. Ma quella volta, più che accorgersi dello specchio, aveva scorto la figura che ivi era contenuta, ingabbiata. Ma non vi aveva fatto troppo caso, e aveva proseguito diretto in cucina per un bicchiere gelato di acqua ghiacciata e limone fresco. Faceva tanto caldo in quei giorni. L’estate aveva sgozzato la primavera, non aveva dubbi, e di tale orrendo crimine non un giornale aveva scritta una riga! Ingollato che ebbe l’acqua ghiacciata, se n’era stato a suggere il limone, sbrodolandosi a partire dagli angoli della bocca, ed era quasi tornato nello studio. Quasi perché si era fermato poco dopo il grande specchio, e poi aveva fatto un passo indietro, incerto, ma indubbiamente di grande effetto coreografico. Orrore! Un uomo sfatto, sporco e trasandato profluiva occhiatacce e sudore. La barba incolta, le sopracciglia incolte, un prognatismo evidente, i capelli radi avvolti da una retìna, e una tuta con una toppa rossa sul ginocchio sinistro. Si era avvicinato al suo riflesso e aveva fissato interito un peletto che sulla punta del naso, leggermente ricurvo, si ergeva imponente nella radura deserta delle cartilagini superiori. Con le unghie lunghe e ingiallite dal tabagismo aveva pinzato il pelo e, zac, lo aveva divelto. Quindi si era accorto di se stesso e si era fissato negli occhi. Gli era sembrato di notare livore e disapprovazione nel suo sguardo. Aveva fatto finta di niente e si era rintanato nel suo studio, isolato dal mondo, per terminare di scrivere la sua cosmogonia, mentre di là, in corridoio, nascosto nello spazio invisibile nello specchio, il suo riflesso si era seduto per terra, e fissava il peletto, in attesa della prossima esibizione.

Transustanziazione

Come ogni domenica, Giordano si recò a messa per sussurrare tra i denti, rivolto al prete, «Canaglia pezzente!». La piccola chiesetta sorgeva alla fine del grande corso, anonima come tutte le chiesette di quartiere, con una piccola croce sopra il portone in legno a indicare che quella era la casa del Signore, e ospitava un numero esiguo di fedeli cui bastava ristorare lo spirito invece che gli occhi. Il parroco era un omino dal busto corto agganciato a due lunghe gambe che gli conferivano un aspetto sghembo e vagamente comico. Fortunatamente per lui, la rigida estetica cattolica impone tonache lunghe fino ai piedi, e solo in pochi avevano notato quella sua strana forma. Tra questi Giordano, che più di una volta si era soffermato dopo la messa, seduto su una panca verso le ultime file, a fissare in cagnesco il pretino che sistemava la sala dopo la cerimonia delle dieci, in attesa di quella delle undici. Anche Don Tommaso – questo il suo nome – gettava ogni tanto uno sguardo di sottecchi verso quell’uomo torvo che non si perdeva una messa. Bruno di carnagione, e statuario d’aspetto, aveva uno strano sguardo inquisitorio che metteva a disagio il povero parroco, turbato da tanta attenzione da parte di un uomo che, era risaputo, non credeva né in Dio né nella curia romana. Tuttavia, scacciati i cattivi pensieri, alle undici spaccate Don Tommaso salutò i fedeli, recitò il Kύριε ἐλέησον, e dopo la liturgia della parola, cadenzata dagli sbuffi sarcastici di Giordano, si inginocchiò per la celebrazione eucaristica. Qualcosa però andò storto, perché l’ostia, rivolta verso il cielo con aria di sognate contrizione da parte del pretino, cominciò davvero a grondare sangue, che gocciolava sul vino e sull’altare. Colto da terrore, Don Tommaso lasciò cadere l’ostia e fuggì via correndo, mentre Giordano – riferiscono alcuni attoniti testimoni – si gettava con cannibale riverenza sul corpo di Cristo.

Il neo

La sveglia suonò alle otto come ogni mattino e, come ogni giorno, lei pigiò il tasto snooze e si rigirò su un fianco stringendo tra le gambe un cuscino, cercando la parte più fresca del letto. La trovò in fondo a destra, quasi a cavalcioni sul materasso e a contatto col muro. Sollievo. Nei dieci minuti concessi dal cellulare – odiava i ticchettii delle vecchie sveglie – fece un sogno strano, della densità di un buco nero, nel quale incontrava se stessa, con educazione si salutava, e poi si oltrepassava attraversandosi letteralmente, come fosse un ectoplasma. Dopo si sentiva l’altra se stessa, e tornava da dove era venuta come fosse la prima volta che percorreva quella strada. Il sogno fu interrotto dal suono del cellulare, e stavolta si alzò. Indossò le pantofole e con gli occhi gonfi di sonno andò in cucina, dove, con grande sorpresa, trovò la moka già pronta e un bigliettino di Luis. Sorrise e accese il fornello, prese una tazzina che riempì eccessivamente di zucchero e, mentre aspettava che il caffè salisse, si accinse a rispondere al messaggio. Tuttavia a metà le cadde la biro di mano perché si accorse che stava scrivendo con la destra, nonostante lei fosse sempre stata mancina. Con timore raccolse la penna e provò a scrivere con quella che alle elementari, dalle suore, tutti definivano la mano del diavolo, e si spaventò nel vedere sgorbi d’inchiostro comparire a fatica sul foglio, mentre l’altra mano scorreva fluida come quella di un amanuense. Tremolante corse in bagno per sciacquarsi il viso, convinta di essere ancora sotto le coperte immersa nel suo sogno, ma l’acqua non la svegliò, giacché ne dedusse che era già sveglia. Gocciolante si fissò allo specchio, e notò che il neo di cui andava tanto fiera, sotto l’occhio sinistro, si era come spostato sotto il destro. Dall’altra parte la sua immagine sembrava dirle «Adesso tocca a me».

*

 

PATRIZIA GIOIA, troppe note, troppe note Mozart

30 Mag

 


Al Teatro Libero sino al 7 giugno, da non perdere.
di Patrizia Gioia
 
… c’è un momento in cui Mozart è davvero tra noi, il suo giovane corpo visto di spalle, un sottile vento, le braccia come ali aperte muovono il suo sentire che ci trasforma in musica, la parrucca, vaporosa nuvola bianca, un ‘armonia che sa trasportarci dove tutti siamo nuvole.
 
TROPPE NOTE MOZART..
TROPPE NOTE… dice in scena il sempre bravo Corrado Accordino, non certo per correggere quella musica, ma per dirci che forse non saremo mai in grado di comprenderla tutta quella genialità e di farci così fare da lei il bene che, comunque, ci fa, magari di divenirlo quel bene, se sapremo seguirla nel suo armonioso passo.
 
Dopo Hemingway e dopo Carver , Accordino riporta Mozart tra noi, illuminando – chè ce ne sempre di bisogno – come ogni forma di potere sia impotente di fronte al genio, forza propulsiva e disarmata chespacca le coordinate di spazio e tempo aprendo l’umano alla vera libertà, che in lui già vive, ma a cui noi siamo sempre lontani, mettendocela anche sempre tutta per uccidere la sua gioia che non ha, né vuole potere alcuno, vuole solo vivere e comporre, nel caso di Mozart, quell’infinito che gli danza dentro e che ha sempre troppe note per noi.
 
Corrado fa scorrere parallelamente due vite, quella del protagonista dei giorni nostri, un quarantaduenne
che si racconta a metà della vita, ricordando come dentro le porte scorrevoli de La Rinascente ( illuminante nome per una conversione, oggi che la via di Damasco è per sempre perduta ) quella musica gli cambiò
la vita, sciogliendogli come neve quella rabbia giovanile che tanto spesso diventa mortifera corazza alla  dirompente gioia della vita, acqua divina che potrà fecondare quella umana solo se saremo disposti a farci irrorare – come il protagonista, arrogante solitario e rocchettaro – dalla genialità di un Mozart che, solo se incontrato potremo poi uccidere, ridandogli la vita che aveva fatta ri-nascere in noi.   
 
Mozart come possibile potenza trasformativa, un ponte tra umano e divino, un essere che non può che essere così, un invidiato a vita che nessun potere potrà mai mortificare, che nessun padre potrà mai condizionare, bella la scelta di Accordino della scimmietta, un tentativo di ammaestramento che sul genio non riesce mai , a patto di prendergli la vita, evidenza che si ripete sempre, in ogni tempo, oggi , era economicistica e della terza pagina, addirittura scriviamo libri chiedendoci se anche la genialità non sia una malattia, così ci guadagneremo ancora qualcosa con nuovi medicinali e nuove cure preventive.
 
Preveniamo la vita per vivere da morti, è da qui che il genio vuole portarci via, da questa landa desolata che difendiamo con le unghie e con i denti, pur di non sentirla la forza trasformativa che ci chiama :lasciate che i morti seppelliscano i loro morti ci dice Mozart, come Gesù e i tanti altri amici…..vieni, vieni via con me, fatti un bagno caldo…
 
La semplicità della scena e i costumi, di MariaChiara Vitali, sono potenti, c’è un momento in cui Mozart è davvero tra noi, il suo giovane corpo visto di spalle, un sottile vento, le braccia come ali aperte  muovono il suo sentire che ci trasforma in musica, la parrucca, vaporosa nuvola bianca, un ‘armonia che sa trasportarci dove tutti siamo nuvole.
 
Grazie a Corrado Accordino, a MariaChiara Vitali, all’aiuto regista Valentina Pajano, alla Produzione La Danza Immobile e al Teatro Libero, un piccolo teatro milanese, in una casa di ringhiera dove il genio ci sta bene di casa…sino al 7 giugno!.
E grazie a Amadeus e alla sua musica !
 
Teatro Libero, via Savona 10, telefono 02 8323126 / biglietteria@teatrolibero.it

F LA SALA, PAPA FRANCESCO, all’ombra del papa emerito

30 Mag

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Visite“DEUS CARITAS EST” (BENEDETTO XVI, 2006). PAPA FRANCESCO,  ALL’OMBRA DEL PAPA EMERITO, RIUSCIRA’ A CAMBIARE REGISTRO? E a deporre le chiavi?! 

PAPA FRANCESCO E IL DIO DELLA CARITA’ (“DEUS CHARITAS”). La porta e la chiave. Una riflessione di Piero Stefani – con note  

L’aprire e chiudere la porta è atto di Dio e non del portinaio. Pietro con il suo mazzo di chiavi posto sulla soglia del Paradiso è meglio che resti là dove compare con maggior frequenza, vale a dire nelle storielle e nelle barzellette.

 

a c. di Federico La Sala

NOTE PER RIFLETTERE:

SE UN PAPA TEOLOGO SCRIVE LA SUA PRIMA ENCICLICA, TITOLANDOLA “DEUS CARITAS EST” (“CHARITAS”, SENZA “H”), E’ ORA CHE TORNI A CASA, DA “MARIA E GIUSEPPE”, PER IMPARARE UN PO’ DI CRISTIANESIMO.

LA GRAZIA DEL DIO DI GESU’ E’ “BENE COMUNE” DELL’INTERA UMANITA’, MA IL VATICANO LA GESTISCE COME SE FOSSE UNA SUA PROPRIETA’. Bruno Forte fa una ’predica’ ai politici, ma non ancora a se stesso e ai suoi colleghi della gerarchia. Una sua nota, con appunti

LUDOVICO A. MURATORI E BENEDETTO XVI: LA STESSA CARITA’ “POMPOSA”. Un breve testo dalla “Prefazione ai lettori ” del “Trattato sulla carità cristiana” di Ludovico A. Muratori 

OBBEDIENZA CIECA: TUTTI, PRETI, VESCOVI, E CARDINALI AGGIOGATI ALLA “PAROLA” DI PAPA RATZINGER (“DEUS CARITAS EST”, 2006). Materiali per riflettere  (fls)

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La porta e la chiave

di Piero Stefani

in “Il pensiero della settimana”
 (http://pierostefani.myblog.it/) n.434 del 25 maggio 2013

Se si consulta un dizionario dei simboli a proposito del termine «porta» si leggeranno, più o meno, queste parole: essa rappresenta il luogo di passaggio fra due stati, fra due mondi, fra il conosciuto e l’ignoto, tra la luce e le tenebre. La porta è un varco aperto sul mistero. Essa ha un valore dinamico e psicologico, in quanto non solo indica un passaggio ma si trasforma in invito a superarlo. Per questo può facilmente alludere anche a un viaggio verso l’aldilà. La porta è anche un simbolo ambivalente; è connessa a un entrare ma anche a un uscire, è aperta o è chiusa.

Quando la porta è intesa in modo dinamico si pensa all’atto di aprire o di chiudere. Allora pare spontaneo immaginare che essa si incontri con un altro simbolo, quello della chiave.

All’interno degli scritti neotestamentari si assiste, però, a una specie di dissociazione tra l’immagine della porta e quella della chiave; nella massima parte dei casi quando c’è l’una non vi è, almeno in modo esplicito, l’altra.

Avviene così, per esempio, nell’Apocalisse. Nella prima visione, colui che è «simile a un Figlio dell’uomo» (Ap 1,13) si presenta dicendo: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi» (Ap. 1,18; cf. Ap 9,1; 20,1). La porta resta sottintesa.

Nella successiva sessione delle sette lettere indirizzata alle sette Chiese, nel caso della missiva inviata all’angelo della Chiesa di Filadelfia, si legge: «Così parla il Santo, il Veritiero, colui che ha la chiave di Davide; quando egli apre nessuno chiude e quando chiude nessuno apre» (Ap 3,7). Il sottotesto biblico qui coinvolto (Is 22,22) chiarisce che la chiave è simbolo dell’autorità dell’amministratore che regola l’accesso al re.

La chiave, lo si sa, è al centro anche di uno dei passi più celebri e più contesi dell’intera Bibbia cristiana, quello del «primato di Pietro»: «A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato anche nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto anche nei cieli» (Mt 16,19; cf. Lc 11,52). Per quanto la radice ebraica ptch , «aprire», da cui deriva anche il termine ebraico per chiave (maftteach), possa indicare anche l’atto di sciogliere, val la pena di sottolineare che, in riferimento a Pietro, non si opta per un aprire e un chiudere.

Almeno ai nostri orecchi, si evocano più dei nodi che delle porte. In ogni caso rimane fondamentale porre in rilievo il fatto che la potestas di legare e sciogliere è riferita alla terra, mentre, per quanto concerne il cielo, l’azione è espressa attraverso un «passivo divino» in cui il complemento d’agente sottointeso è riferibile a Dio e non già a Pietro. In ogni caso, il rilievo più importante sta nel ribadire che in tutto il passo non c’è alcun nesso tra chiave e porta. Infatti quando compare quest’ultimo termine (pylÄ“) esso è usato per scongiurare la minaccia di vedersi inghiottiti nelle profondità dell’abisso «e le porte (pylai ) dell’Ade non prevarranno» (Mt 16,18; secondo una traduzione letterale). La porta, lungi dall’essere figura di salvezza, evoca esattamente l’opposto; essa diviene un modo per richiamare l’antica bocca dello Sheol spalancatasi per inghiottire gli empi (Nm 16,33).

Cosa dedurre da questa divaricazione tra chiavi e porta? La conclusione più stringente è che la porta la si trova aperta o chiusa, nessuno, però, è stato investito del potere di aprirla o di chiuderla. Questa decisiva differenziazione non è stata valorizzata dal linguaggio ecclesiale, il quale, anzi, fin da epoche antiche, rese equivalente il legare e lo sciogliere a un chiudere e a un aprire.

Bonifacio I nel 422, scrivendo a Rufo e ad altri vescovi della Macedonia per ribadire il primato della sede romana, affermò, per esempio, che, secondo le parole del «nostro Cristo», chiunque insorga a oltraggiare il successore di Pietro non potrà abitare nel regno dei cieli: « “A te” dice “darò le chiavi del regno dei cieli” e in esso nessuno entrerà senza il favore del portinaio». Eppure noi avvertiamo ben più vera, specie in relazione al «regno dei cieli», la separazione biblica tra «porta» e «chiave».

L’aprire e chiudere la porta è atto di Dio e non del portinaio. Pietro con il suo mazzo di chiavi posto sulla soglia del Paradiso è meglio che resti là dove compare con maggior frequenza, vale a dire nelle storielle e nelle barzellette.

Martedì 28 Maggio,2013 Ore: 19:30

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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 29/5/2013 06.35
Titolo:PAPA FRANCESCO CLONE DEL PREDECESSORE?
Clone del predecessore? 

di Klaus Nientiedt 

– in “www.konradsblatt-online.de” del 28 maggio 2013 
– (traduzione: http://www.finesettimana.org

Alcuni osservatori dell’attualità ecclesiale si preoccupano molto in questo momento di chiarire che tra papa Benedetto e papa Francesco non c’è la minima differenza. Con questo si vuol dire che sarebbe irrealistico presumere di poter sperare, con papa Francesco, in progetti di riforma che non erano fattibili con Benedetto. 

Che ora con Francesco si realizzi tutto ciò che sotto Benedetto non è stato realizzato, è una speranza effettivamente irrealistica e decisamente anche lontana dall’ecclesialità. Ma bisogna proprio sostenere che tra Benedetto e Francesco non ci sia la minima differenza, in altri termini: che il nuovo papa faccia e pensi tutto esattissimamente come il predecessore? Ma che immagine di Chiesa e di papato sta dunque dietro a questa idea? 

Anche a prescindere dal fatto che Francesco ha già posto una serie di segni con cui si è assolutamente distinto dal predecessore, sarebbe forse giusto attendersi una totale uguaglianza tra i vescovi di Roma? 

Ma veramente alcuni pensano che la Chiesa cattolica possa garantire la sua unità solo tramite il fatto che in un certo senso un papa sia il clone del suo predecessore? Sarebbe un’immagine di Chiesa lontana dalla realtà. In passato non è stato così – e perché mai dovrebbe essere così oggi? 

Prendiamo ad esempio Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Per quanto queste due persone possano essere state vicine – tra le due c’era ben più di una “minima” differenza. Dichiarare la messa tridentina rito straordinario della messa romana era qualcosa da non farsi con Giovanni Paolo II. Si possono anche citare le differenze di opinione tra Giovanni Paolo II e il cardinale Joseph Ratzinger a proposito dell’incontro di Assisi. O anche sul diverso atteggiamento rispetto alle richieste di perdono di papa Wojtyla nel 2000. 

L’idea che tra due papi non ci debba essere la minima differenza mi pare un po’ infantile. C’è solo da sperare che non si stia prima di tutto attenti a che non avvenga mai nulla di diverso rispetto a quanto voleva il predecessore del papa in carica. Altrimenti come sarebbe possibile qualsiasi sviluppo?

Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 29/5/2013 14.05
Titolo:“Anche il Papa e la chiesa hanno peccati e imperfezioni”. Papa Bergoglio …
Papa: “Anche io e Chiesa abbiamo peccati, 
ma Dio è misericordioso e perdona sempre” 

Sotto una pioggia battente e senza nessun riparo, Bergoglio ha percorso Piazza San Pietro a bpordo della jeep scoperta per salutare i fedeli che lo attendevano per l’Udienza generale: “Non abbiate paura di essere genitori” 

CITTA’ DEL VATICANO – “Anche il Papa e la chiesa hanno peccati e imperfezioni”. Papa Bergoglio, sfidando la pioggia battente che anche oggi cade sulla Capitale, così ha parlato ai 90mila fedeli riuniti in Piazza San Pietro per l’Udienza generale del mercoledì. “Alcuni dicono- continua Bergoglio – : ‘Cristo sì, la Chiesa no’, ovvero: ‘credo in Dio ma non nei preti’. Ma la Chiesa è la grande famiglia dei figli di Dio e ha anche aspetti umani, ci sono nei suoi membri imperfezioni, peccati. Anche il Papa ne ha, e ne ha tanti”. “Ma il bello – ha detto ancora il Pontefice – è che quando ci accorgiamo di essere peccatori, allora troviamo la misericordia di Dio. Dio sempre perdona”. 

“Amate la Chiesa cari fratelli e sorelle – ha esortato rivolto ai pellegrini di lingua francese -, essa è l’opera di Dio”. “Quando leggiamo i Vangeli, vediamo che Gesù raduna intorno a sè una piccola comunità che accoglie la sua parola, lo segue, condivide il suo cammino, diventa la sua famiglia, e con questa comunità Egli prepara e costruisce la sua Chiesa”, ha detto ancora il Pontefice ricordando che “la Chiesa è famiglia in cui si ama e si è amati”. “Domandiamoci oggi: quanto amo io la Chiesa? Prego per lei? Mi sento parte della famiglia della Chiesa? Che cosa faccio perché sia una comunità in cui ognuno si senta accolto e compreso, senta la misericordia e l’amore di Dio che rinnova la vita?”, ha suggerito. “La fede – ha poi concluso – è un dono e un atto che ci riguarda personalmente, ma Dio ci chiama a vivere insieme la nostra fede, come famiglia, come Chiesa”. 

“Non abbiate paura di essere genitori”. “La paternità è un dono di Dio e una grande responsabilità per dare una nuova vita, la quale è un’irripetibile immagine di Dio. Non abbiate paura di essere genitori. Molti di voi certamente diventeranno padri!”, ha aggiunto Papa Francesco, rivolgendosi ai giovani presenti oggi all’Udienza generale. “Siate anche aperti alla paternità spirituale, un grande tesoro della nostra fede. Dio vi doni la ricchezza e la irradiazione della sua paternità e vi colmi della sua gioia”, ha chiesto loro. “Ricordate – ha aggiunto – che Dio è padre di ciascuno di noi. È modello di ogni paternità, anche di quella terrena. Non dimenticate di rendere grazie a Dio per il vostro genitore”. “Ciascuno di noi – ha detto ancora – deve tanto al padre eterno che ci ha trasmesso la vita”. 

“Dio dà quello che chiediamo, ma a modo divino”. Bergogno ha ricordato, durante la messa a Santa Marta, che “il Signore sempre ci dà quello che chiediamo, ma al suo modo divino”. “Io ricordo una volta, – ha raccontato Francesco – ero in un momento buio della mia vita spirituale e chiedevo una grazia dal signore. Poi sono andato a predicare gli esercizi alle suore e l’ultimo giorno si confessano. È venuta a confessarsi una suora anziana, più di 80 anni, ma con gli occhi chiari, proprio luminosi: era una donna di Dio. Poi alla fine l’ho vista tanto donna di Dio che le ho detto: ‘Ma suora, come penitenza preghi per me, perché ho bisogno di una grazia, eh? Se lei la chiede al Signore, me la darà sicurò. Lei si è fermata un attimo, come se pregasse, e mi ha detto questo: ‘Sicuro che il signore le darà la grazia ma, non si sbagli: al suo modo divino’. Questo mi ha fatto tanto bene. Sentire che il Signore sempre ci dà quello che chiediamo, ma al suo modo divino. E il modo divino è questo fino alla fine”. “Il modo divino – ha spiegato Francesco – coinvolge la croce, non per masochismo: no, no! Per amore. Per amore fino alla fine”. 

Il tweet. “La Chiesa nasce dal gesto supremo di amore della Croce, dal costato aperto di Gesù. La Chiesa è una famiglia in cui si ama e si è amati”, è il nuovo tweet di Papa Francesco 

F LA SALA, PAPA FRANCESCO, all’ombra del papa emerito

30 Mag

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PAPA FRANCESCO E IL DIO DELLA CARITA’ (“DEUS CHARITAS”). La porta e la chiave. Una riflessione di Piero Stefani – con note  

L’aprire e chiudere la porta è atto di Dio e non del portinaio. Pietro con il suo mazzo di chiavi posto sulla soglia del Paradiso è meglio che resti là dove compare con maggior frequenza, vale a dire nelle storielle e nelle barzellette.

 

a c. di Federico La Sala

NOTE PER RIFLETTERE:

SE UN PAPA TEOLOGO SCRIVE LA SUA PRIMA ENCICLICA, TITOLANDOLA “DEUS CARITAS EST” (“CHARITAS”, SENZA “H”), E’ ORA CHE TORNI A CASA, DA “MARIA E GIUSEPPE”, PER IMPARARE UN PO’ DI CRISTIANESIMO.

LA GRAZIA DEL DIO DI GESU’ E’ “BENE COMUNE” DELL’INTERA UMANITA’, MA IL VATICANO LA GESTISCE COME SE FOSSE UNA SUA PROPRIETA’. Bruno Forte fa una ’predica’ ai politici, ma non ancora a se stesso e ai suoi colleghi della gerarchia. Una sua nota, con appunti

LUDOVICO A. MURATORI E BENEDETTO XVI: LA STESSA CARITA’ “POMPOSA”. Un breve testo dalla “Prefazione ai lettori ” del “Trattato sulla carità cristiana” di Ludovico A. Muratori 

OBBEDIENZA CIECA: TUTTI, PRETI, VESCOVI, E CARDINALI AGGIOGATI ALLA “PAROLA” DI PAPA RATZINGER (“DEUS CARITAS EST”, 2006). Materiali per riflettere  (fls)

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La porta e la chiave

di Piero Stefani

in “Il pensiero della settimana”
 (http://pierostefani.myblog.it/) n.434 del 25 maggio 2013

Se si consulta un dizionario dei simboli a proposito del termine «porta» si leggeranno, più o meno, queste parole: essa rappresenta il luogo di passaggio fra due stati, fra due mondi, fra il conosciuto e l’ignoto, tra la luce e le tenebre. La porta è un varco aperto sul mistero. Essa ha un valore dinamico e psicologico, in quanto non solo indica un passaggio ma si trasforma in invito a superarlo. Per questo può facilmente alludere anche a un viaggio verso l’aldilà. La porta è anche un simbolo ambivalente; è connessa a un entrare ma anche a un uscire, è aperta o è chiusa.

Quando la porta è intesa in modo dinamico si pensa all’atto di aprire o di chiudere. Allora pare spontaneo immaginare che essa si incontri con un altro simbolo, quello della chiave.

All’interno degli scritti neotestamentari si assiste, però, a una specie di dissociazione tra l’immagine della porta e quella della chiave; nella massima parte dei casi quando c’è l’una non vi è, almeno in modo esplicito, l’altra.

Avviene così, per esempio, nell’Apocalisse. Nella prima visione, colui che è «simile a un Figlio dell’uomo» (Ap 1,13) si presenta dicendo: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi» (Ap. 1,18; cf. Ap 9,1; 20,1). La porta resta sottintesa.

Nella successiva sessione delle sette lettere indirizzata alle sette Chiese, nel caso della missiva inviata all’angelo della Chiesa di Filadelfia, si legge: «Così parla il Santo, il Veritiero, colui che ha la chiave di Davide; quando egli apre nessuno chiude e quando chiude nessuno apre» (Ap 3,7). Il sottotesto biblico qui coinvolto (Is 22,22) chiarisce che la chiave è simbolo dell’autorità dell’amministratore che regola l’accesso al re.

La chiave, lo si sa, è al centro anche di uno dei passi più celebri e più contesi dell’intera Bibbia cristiana, quello del «primato di Pietro»: «A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato anche nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto anche nei cieli» (Mt 16,19; cf. Lc 11,52). Per quanto la radice ebraica ptch , «aprire», da cui deriva anche il termine ebraico per chiave (maftteach), possa indicare anche l’atto di sciogliere, val la pena di sottolineare che, in riferimento a Pietro, non si opta per un aprire e un chiudere.

Almeno ai nostri orecchi, si evocano più dei nodi che delle porte. In ogni caso rimane fondamentale porre in rilievo il fatto che la potestas di legare e sciogliere è riferita alla terra, mentre, per quanto concerne il cielo, l’azione è espressa attraverso un «passivo divino» in cui il complemento d’agente sottointeso è riferibile a Dio e non già a Pietro. In ogni caso, il rilievo più importante sta nel ribadire che in tutto il passo non c’è alcun nesso tra chiave e porta. Infatti quando compare quest’ultimo termine (pylÄ“) esso è usato per scongiurare la minaccia di vedersi inghiottiti nelle profondità dell’abisso «e le porte (pylai ) dell’Ade non prevarranno» (Mt 16,18; secondo una traduzione letterale). La porta, lungi dall’essere figura di salvezza, evoca esattamente l’opposto; essa diviene un modo per richiamare l’antica bocca dello Sheol spalancatasi per inghiottire gli empi (Nm 16,33).

Cosa dedurre da questa divaricazione tra chiavi e porta? La conclusione più stringente è che la porta la si trova aperta o chiusa, nessuno, però, è stato investito del potere di aprirla o di chiuderla. Questa decisiva differenziazione non è stata valorizzata dal linguaggio ecclesiale, il quale, anzi, fin da epoche antiche, rese equivalente il legare e lo sciogliere a un chiudere e a un aprire.

Bonifacio I nel 422, scrivendo a Rufo e ad altri vescovi della Macedonia per ribadire il primato della sede romana, affermò, per esempio, che, secondo le parole del «nostro Cristo», chiunque insorga a oltraggiare il successore di Pietro non potrà abitare nel regno dei cieli: « “A te” dice “darò le chiavi del regno dei cieli” e in esso nessuno entrerà senza il favore del portinaio». Eppure noi avvertiamo ben più vera, specie in relazione al «regno dei cieli», la separazione biblica tra «porta» e «chiave».

L’aprire e chiudere la porta è atto di Dio e non del portinaio. Pietro con il suo mazzo di chiavi posto sulla soglia del Paradiso è meglio che resti là dove compare con maggior frequenza, vale a dire nelle storielle e nelle barzellette.

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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 29/5/2013 06.35
Titolo:PAPA FRANCESCO CLONE DEL PREDECESSORE?
Clone del predecessore? 

di Klaus Nientiedt 

– in “www.konradsblatt-online.de” del 28 maggio 2013 
– (traduzione: http://www.finesettimana.org

Alcuni osservatori dell’attualità ecclesiale si preoccupano molto in questo momento di chiarire che tra papa Benedetto e papa Francesco non c’è la minima differenza. Con questo si vuol dire che sarebbe irrealistico presumere di poter sperare, con papa Francesco, in progetti di riforma che non erano fattibili con Benedetto. 

Che ora con Francesco si realizzi tutto ciò che sotto Benedetto non è stato realizzato, è una speranza effettivamente irrealistica e decisamente anche lontana dall’ecclesialità. Ma bisogna proprio sostenere che tra Benedetto e Francesco non ci sia la minima differenza, in altri termini: che il nuovo papa faccia e pensi tutto esattissimamente come il predecessore? Ma che immagine di Chiesa e di papato sta dunque dietro a questa idea? 

Anche a prescindere dal fatto che Francesco ha già posto una serie di segni con cui si è assolutamente distinto dal predecessore, sarebbe forse giusto attendersi una totale uguaglianza tra i vescovi di Roma? 

Ma veramente alcuni pensano che la Chiesa cattolica possa garantire la sua unità solo tramite il fatto che in un certo senso un papa sia il clone del suo predecessore? Sarebbe un’immagine di Chiesa lontana dalla realtà. In passato non è stato così – e perché mai dovrebbe essere così oggi? 

Prendiamo ad esempio Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Per quanto queste due persone possano essere state vicine – tra le due c’era ben più di una “minima” differenza. Dichiarare la messa tridentina rito straordinario della messa romana era qualcosa da non farsi con Giovanni Paolo II. Si possono anche citare le differenze di opinione tra Giovanni Paolo II e il cardinale Joseph Ratzinger a proposito dell’incontro di Assisi. O anche sul diverso atteggiamento rispetto alle richieste di perdono di papa Wojtyla nel 2000. 

L’idea che tra due papi non ci debba essere la minima differenza mi pare un po’ infantile. C’è solo da sperare che non si stia prima di tutto attenti a che non avvenga mai nulla di diverso rispetto a quanto voleva il predecessore del papa in carica. Altrimenti come sarebbe possibile qualsiasi sviluppo?

Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 29/5/2013 14.05
Titolo:“Anche il Papa e la chiesa hanno peccati e imperfezioni”. Papa Bergoglio …
Papa: “Anche io e Chiesa abbiamo peccati, 
ma Dio è misericordioso e perdona sempre” 

Sotto una pioggia battente e senza nessun riparo, Bergoglio ha percorso Piazza San Pietro a bpordo della jeep scoperta per salutare i fedeli che lo attendevano per l’Udienza generale: “Non abbiate paura di essere genitori” 

CITTA’ DEL VATICANO – “Anche il Papa e la chiesa hanno peccati e imperfezioni”. Papa Bergoglio, sfidando la pioggia battente che anche oggi cade sulla Capitale, così ha parlato ai 90mila fedeli riuniti in Piazza San Pietro per l’Udienza generale del mercoledì. “Alcuni dicono- continua Bergoglio – : ‘Cristo sì, la Chiesa no’, ovvero: ‘credo in Dio ma non nei preti’. Ma la Chiesa è la grande famiglia dei figli di Dio e ha anche aspetti umani, ci sono nei suoi membri imperfezioni, peccati. Anche il Papa ne ha, e ne ha tanti”. “Ma il bello – ha detto ancora il Pontefice – è che quando ci accorgiamo di essere peccatori, allora troviamo la misericordia di Dio. Dio sempre perdona”. 

“Amate la Chiesa cari fratelli e sorelle – ha esortato rivolto ai pellegrini di lingua francese -, essa è l’opera di Dio”. “Quando leggiamo i Vangeli, vediamo che Gesù raduna intorno a sè una piccola comunità che accoglie la sua parola, lo segue, condivide il suo cammino, diventa la sua famiglia, e con questa comunità Egli prepara e costruisce la sua Chiesa”, ha detto ancora il Pontefice ricordando che “la Chiesa è famiglia in cui si ama e si è amati”. “Domandiamoci oggi: quanto amo io la Chiesa? Prego per lei? Mi sento parte della famiglia della Chiesa? Che cosa faccio perché sia una comunità in cui ognuno si senta accolto e compreso, senta la misericordia e l’amore di Dio che rinnova la vita?”, ha suggerito. “La fede – ha poi concluso – è un dono e un atto che ci riguarda personalmente, ma Dio ci chiama a vivere insieme la nostra fede, come famiglia, come Chiesa”. 

“Non abbiate paura di essere genitori”. “La paternità è un dono di Dio e una grande responsabilità per dare una nuova vita, la quale è un’irripetibile immagine di Dio. Non abbiate paura di essere genitori. Molti di voi certamente diventeranno padri!”, ha aggiunto Papa Francesco, rivolgendosi ai giovani presenti oggi all’Udienza generale. “Siate anche aperti alla paternità spirituale, un grande tesoro della nostra fede. Dio vi doni la ricchezza e la irradiazione della sua paternità e vi colmi della sua gioia”, ha chiesto loro. “Ricordate – ha aggiunto – che Dio è padre di ciascuno di noi. È modello di ogni paternità, anche di quella terrena. Non dimenticate di rendere grazie a Dio per il vostro genitore”. “Ciascuno di noi – ha detto ancora – deve tanto al padre eterno che ci ha trasmesso la vita”. 

“Dio dà quello che chiediamo, ma a modo divino”. Bergogno ha ricordato, durante la messa a Santa Marta, che “il Signore sempre ci dà quello che chiediamo, ma al suo modo divino”. “Io ricordo una volta, – ha raccontato Francesco – ero in un momento buio della mia vita spirituale e chiedevo una grazia dal signore. Poi sono andato a predicare gli esercizi alle suore e l’ultimo giorno si confessano. È venuta a confessarsi una suora anziana, più di 80 anni, ma con gli occhi chiari, proprio luminosi: era una donna di Dio. Poi alla fine l’ho vista tanto donna di Dio che le ho detto: ‘Ma suora, come penitenza preghi per me, perché ho bisogno di una grazia, eh? Se lei la chiede al Signore, me la darà sicurò. Lei si è fermata un attimo, come se pregasse, e mi ha detto questo: ‘Sicuro che il signore le darà la grazia ma, non si sbagli: al suo modo divino’. Questo mi ha fatto tanto bene. Sentire che il Signore sempre ci dà quello che chiediamo, ma al suo modo divino. E il modo divino è questo fino alla fine”. “Il modo divino – ha spiegato Francesco – coinvolge la croce, non per masochismo: no, no! Per amore. Per amore fino alla fine”. 

Il tweet. “La Chiesa nasce dal gesto supremo di amore della Croce, dal costato aperto di Gesù. La Chiesa è una famiglia in cui si ama e si è amati”, è il nuovo tweet di Papa Francesco 

La selezione degli inediti di narrativa nel campo editoriale contemporane…

30 Mag

 

 

La selezione degli inediti di narrativa nel campo editoriale contemporaneo/ 2.

28 maggio 2013 Pubblicato da Guido Mazzoni | 2 commenti

 
di Luca Pareschi
[Questo saggio è apparso sul numero 65-66 di «Allegoria». La prima parte si legge qui]
3. Pubblicare esordienti
Gli editor indicano molti buoni motivi per pubblicare esordienti italiani: «Un po’ perché è la cosa più bella che può capitare a chi fa questo lavoro, quella di scoprire e far sbocciare una nuova voce vera, autentica, forte, necessaria, nel panorama della narrativa italiana. Un po’ perché, se vogliamo toccare un aspetto più economico, è un investimento che ha un alto margine di redditività. Gli esordienti raramente sono costosi dal punto di vista editoriale – anche se sono più rischiosi perché, quando lancio un esordiente, può vendere da zero a 100mila copie in maniera imprevedibile…» (CEm). Vediamo più in dettaglio gli aspetti che generano una forte attenzione degli editor verso gli esordienti italiani.
3.1. Il piacere della scoperta
Il primo aspetto ha a che vedere col piacere in sé della scoperta del talento letterario: «Ci sono persone che amano trovarlo, e persone che amano gestirlo. La spinta è sempre una spinta di origine culturale, psicologica, voler far emergere la bellezza» (CEg); «Per noi, chiaramente, pubblicare un totalmente inedito è più bello. Perché è una cosa che prima non c’era. È una scoperta totale, è una cosa nostra, da tutti punti di vista» (CEp). E spesso gli autori, anche se acquistano una discreta notorietà, rimangono legati a chi li ha scoperti: «Può essere che sia un buon esordio, in cui credo, che riceve dell’attenzione, che sia stato un buon investimento, in cui non perdo. E può essere una costruzione: seguire il percorso di un autore, almeno finché è possibile, almeno finché editore e autore si riconoscono entrambi. […] Alla fine ripaga, anche economicamente. Quindi è interessante seguire anche gli esordi, oltre a essere più piacevole» (CEm).
3.2. Comunicare un esordiente
È più facile comunicare l’opera di un esordiente ai media e ai librai, e questo vale in primo luogo per case editrici grandi e industriali: «Un libro d’esordio può sempre essere una sorpresa, anche per i giornali. […] C’è più attenzione, ci sono più riflettori puntati sull’esordio, soprattutto su un esordio di una grande casa editrice. Un esordio Mondadori, un esordio Einaudi, un esordio Feltrinelli, hanno comunque più attenzione da parte dei recensori» (CEg); «Soprattutto per gli editori più grossi e più spregiudicati di noi, se vuoi costruire un caso letterario è più facile farlo con un esordiente, che non con un autore che, magari, ha scritto un romanzo strepitoso ma è già alla terza opera. Perché, laddove ci sono delle opere precedenti di un autore, i librai tendono a partire dai risultati ottenuti precedentemente. Anche se tu sei convinto che questo autore ha scritto il romanzo del secolo, se ha già scritto tre romanzi che hanno venduto 2mila copie, è molto probabile che non si staccherà tanto da 2mila copie. Perché ci sono scetticismo e diffidenza da parte dei librai, che questo autore improvvisamente possa decuplicare o centuplicare quello che vende. Mentre con gli autori esordienti non ci sono precedenti» (CEm). Anche gli editori più piccoli possono cercare di lavorare coi librai: «Rispetto a 10 anni fa, quando ho iniziato io, si pubblicano molti più italiani. La percentuale di traduzioni, in Italia, è calata parecchio. […] La scrittura in Italia in generale è migliorata. Ok. Quindi, pubblicare un esordiente italiano è più facile rispetto 10 anni fa. […] È chiaro che anche in questo, ovviamente, […] una casa editrice potente, come Einaudi, è più probabile che ottenga un paginone per un esordiente su uno dei giornali principali, rispetto a e/o. […] Per quanto riguarda noi, dipende molto dal lavoro che si fa sui librai: se riesci a ottenere il loro appoggio […], riesci a ottenere qualche risultato» (CEm). Ciononostante, la categoria dei librai viene descritta come la meno sensibile, fra quelle che partecipano alla ricezione dei libri, al fascino degli esordienti. Questo, probabilmente, perché mentre un giornalista è alla ricerca della novità, il libraio è più scettico circa le effettive possibilità di vendita di autori inediti: «Ovviamente non è vero che c’è più attenzione da parte dei librai [verso gli esordienti], perché non li conoscono» (CEg).
Le case editrici più grandi si sono servite di questa maggiore facilità di comunicazione per creare, o sfruttare, casi letterari a partire da giovani esordienti. Non voglio dire che questi abbiano avuto successo solo in quanto casi creati ad arte, ma il fatto stesso che si trattasse di esordienti ha permesso agli editori di presentarli come il fenomeno del momento. «Ci sono libri, sempre per [parlare di] Mondadori – che sugli esordienti ha fatto un bel successo – come Paolo Giordano, che non sono di scarsa qualità. Però si è capito [che] su Giordano ci hanno puntato fin dall’inizio. Si è visto. […] Dal momento che Mondadori pubblica 60 novità di narrativa italiana ogni anno, non può promuoverli tutti allo stesso modo. Punta su alcuni. Su Giordano si è visto: appena uscito c’erano le vetrine piene in libreria […] Così l’operazione sulla Avallone, si riconosce quando puntano su un titolo» (CEp). Cosa che non smentisce nemmeno l’editor di Avallone, per quanto le diverse sfumature con cui la storia è presentata marchino una differenza: «Silvia è costata: abbiamo fatto pubblicità su tutti i quotidiani italiani. Siamo usciti con poche copie perché i lettori lo scoprissero. Nel frattempo avevo venduto i diritti al cinema, ma i lettori non lo sapevano. Una volta che i lettori si sono accorti [del libro], allora fai pubblicità e la pubblicità serve paradossalmente dopo» (CEg). Quindi, in sostanza, l’editor sostiene che un libro debba cominciare a vendere autonomamente, prima che gli si possa fare pubblicità. Idea condivisa anche da editor di altre case editrici di grandi dimensioni: «la pubblicità di un libro che non legge nessuno, sono soldi spesi male» (CEg). Viceversa, l’editor di una piccola casa editrice: «Non è quasi pensabile che un libro cominci a camminare con le sue gambe. Questa è una cosa che a volte pensano gli scrittori, ma c’è un lavoro dietro fin dall’inizio. Se un libro non viene presentato nei posti giusti, alle persone giuste… […] Un libraio può spostare più di una recensione sul “Corriere della Sera”. Perché se ai librai un libro piace, un libraio indipendente, che non si fa condizionare, capace che te ne vende 600 copie» (CEp). I piccoli editori, se vogliono promuovere un esordiente, devono ricorrere a canali come i librai e le presentazioni, visto che la promozione pubblicitaria è molto costosa: «Pubblicità proprio non ne facciamo, se non pochissimo: quasi nessun libro ha un budget pubblicitario. […] Promozione nel senso di organizzare incontri, presentazioni, interviste per l’autore, far uscire recensioni… questo tipo di promozione, che non è esattamente pubblicitaria, si tenta di farla per tutti i libri» (CEm). Ma non sembri che per gli editori di maggiori dimensioni tutto sia semplice: «Certe volte uno dice: questo successo l’hanno preparato. È vero: hai preso un libro, c’hai creduto, l’hai preparato ed è andato bene. […] Quello che non si sa è che questo stesso lavoro tu magari l’hai fatto su 10 libri, e te ne è andato bene uno. Quindi, alla fine, la casualità c’entra» (CEm).
3.3. Economia dell’esordio
Abbiamo solo accennato alla questione economica, ed è bene tornarci: «L’acquisizione di un esordiente è economicamente molto meno onerosa, in Italia, dell’acquisizione di un autore [non esordiente]» (CEg). Inoltre, «Molto spesso il bilancio […] di una casa editrice è fatto da uno o pochissimi libri. Perché il mercato è molto stretto: c’è come un imbuto. La maggior parte dei libri vendono pochissimo. Ci sono certi libri di cui siamo molto contenti se arriviamo a mille copie di venduto, che vuol dire che più o meno siamo andati in pari con le spese di stampa e spedizione. E questa è la grande massa. Pochi libri riescono in qualche modo ad arrivare fino alla fine di quest’imbuto e a emergere a una visibilità più ampia e generale, per i motivi più strani e diversi, e questi libri possono veramente vendere moltissimo. Noi abbiamo avuto negli ultimi anni Stieg Larsson: la prima edizione che abbiamo stampato era di 10/12mila copie, del primo romanzo, e adesso la trilogia è quasi a 2 milioni e mezzo di copie. C’è stata una crescita graduale fino a un certo punto, e quindi è arrivata la fine di quest’imbuto: quando è riuscito a emergere fra i pochi libri di cui tutti si accorgono, è stato come una palla di neve che, rotolando, diventa valanga» (CEm). Il successo commerciale di un libro, quindi, può influire fortemente sul bilancio di una casa editrice, e anche sulla carriera dell’editor che lo ha scelto, dal momento che gli editor sono valutati anche sulla base delle vendite: «Il risultato commerciale è molto importante. Perché siamo editor, ma siamo direttori di una collana intera, quindi non possiamo portare risultati che non sono quelli che ci chiedono a inizio anno» (CEg).
Se il primo libro di un autore non ha venduto, è meglio cercarne uno nuovo per via del «famoso problema del secondo libro: se uno ha avuto un successo clamoroso, ti pubblicano di sicuro e sono curiosi anche della recensione del secondo. Però se il primo non è andato granché nessuno ti vuole: difficilmente ti stanno ad ascoltare il commerciale all’interno, i giornalisti all’esterno, anche i librai» (CEg). «Anche perché spesso i primi libri godono di una certa benevolenza, da parte di critici e lettori. Si possono perdonare ingenuità, difetti, limiti: ragazzi giovani, un’opera prima. Nel secondo libro e, soprattutto in Italia, se il primo libro ha avuto successo, si tende a essere spietati» (CEm). E il risultato è che «il 70% degli esordienti non pubblica il secondo libro» (CEp).
3.4. Esiti imprevedibili
«Non è il marketing che crea questi successi. Perché, nei fatti, né Marsilio, ne e/o, né Fazi hanno la capacità di fare campagne di marketing che creano artificiosamente dei successi, come quelli che ho citato.[1] Ma non solo! Neanche Mondadori ha questa capacità, nonostante abbia delle leve di marketing molto più forti delle nostre. Mondadori ha azzeccato negli ultimi anni due clamorosi colpi editoriali, due esordienti italiani che hanno superato entrambi i milioni di copie, Giordano e Saviano, ma non lo ha fatto tramite il marketing. Lo si è visto l’anno scorso, che non c’è stato l’ennesimo esordiente Mondadori da un milione di copie: se fosse un problema di marketing, non si capisce perché non lo avrebbero potuto ripetere» (CEm). Gli esiti degli esordi possono davvero essere inaspettati: «Il successo è, in realtà, assolutamente imprevedibile. Se a me, cinque anni fa – e noi eravamo già molto attivi e impegnati su questo filone del thriller scandinavo – avessero detto che un autore di thriller svedese sarebbe arrivato ad avere vendite dei livelli di Dan Brown o Khaled Hosseini, io gli avrei riso in faccia. […] All’inizio del 2009, in realtà, sappiamo che c’è stata una riunione, più o meno riservata, dei massimi vertici di Mondadori e RCS congiunti, per cercare di analizzare la situazione e spiegarsi perché la top ten era praticamente monopolizzata da Fazi e Marsilio. […] E questo è quello che rende molto affascinante questo lavoro: a chiunque viene concessa la possibilità di azzeccare uno di questi libri» (CEm). E il successo, quando arriva, può andare oltre le previsioni degli editori: «Io sono convinto che nei casi in cui si va oltre 200mila copie [vendute], per un editore non c’è più modo di controllo. Fino a 200mila copie è un grande successo monitorabile, dopo le 200mila copie è terra incognita. Uno se lo può raccontare, si può dire un sacco di balle, scusi l’espressione, dicendo ho fatto questo, ho fatto quell’altro, ma non c’è modo di governare. È un meccanismo che si mette in atto, e questo vale per Moccia, vale per Saviano e vale per Giordano. C’è un punto in cui sfugge. Allora non è perché tutti vogliono essere più civili, caso Saviano, non è perché tutti sono adolescenti, caso di Moccia, non è perché tutti soffrono il dolore dell’adolescenza, come nel caso di Giordano. C’è un mistero ed è un mistero anche interessante. Quello che fa l’editore bravo è governare il successo» (CEg).
3.5. Cercare manoscritti o cercare autori: diversi biglietti di accesso al campo letterario
Le case editrici, per sopravvivere, devono trovare manoscritti che diano loro prestigio culturale e successo commerciale. Il riconoscimento culturale dipende da una costruzione sociale, dall’esito mutevole nel tempo; per quel che riguarda il successo commerciale, annoto un aforisma che mi è stato ripetuto da numerosi editor durante le interviste: l’unica ricerca di mercato che si possa fare per un libro è stamparlo, pubblicarlo, metterlo sugli scaffali e vedere se si vende. Gli editor, quindi, si muovono in un terreno del tutto incerto e a colpirli può essere sia un libro che un autore. Un editore può scegliere di pubblicare un’opera perché la ritiene forte, di valore, anche a prescindere dalla convinzione che l’autore, in seguito, possa ripetersi, cosa che non sempre accade. Oppure, un editor può intravedere in un autore i tratti dello scrittore di successo, anche se non dal primo libro. In questi casi lo metterà sotto contratto, convinto che, attraverso un lavoro congiunto, l’affermazione possa arrivare. È chiaro che si tratta di una distinzione analitica: è molto facile, a posteriori, capire quali sono gli scrittori da un solo romanzo e quali, invece, hanno una forza narrativa diversa. A priori, però, le valutazioni non sono così semplici. Fra questi due estremi vi è una serie di casi in cui l’editor si trova di fronte a un autore di cui riconosce il talento non ancora pienamente sviluppato. Entrano allora in gioco considerazioni che riguardano il modo migliore di valorizzare questo talento, sia per l’autore che per la casa editrice. È il caso di pubblicare un romanzo non del tutto compiuto, col rischio di “bruciarne” l’autore, o non è meglio aspettare un romanzo successivo, rischiando però di perdere l’autore, o di vederlo rinunciare alla scrittura? Vediamo ad esempio questa citazione, estratta da una scheda di lettura fatta dal lettore di uno dei principali gruppi editoriali:
Apocalittico e amaro, il libro di HHH dimostra un piglio e una capacità di scrittura senz’altro incoraggianti, oltre ad alcuni interessanti spunti narrativi. Almeno nello stato attuale, tuttavia, non si può ignorare un problema di tenuta; qualora si decidesse di pubblicare il libro, sarebbe senz’altro necessaria una riscrittura (e un ampliamento). La questione, mi pare, sta tutta nelle potenzialità dell’autore, qui espresse non ancora al meglio: conviene puntare subito su un autore giovane e bravo, rischiando però di “bruciarlo” con una storia un po’ difficile?[2]
Un caso diverso, e di più semplice risoluzione, è quello in cui il manoscritto, pur non perfetto, è quasi pubblicabile. La casa editrice cerca allora di convincere l’autore a una rielaborazione dell’opera: se l’autore accetta, viene messo sotto contratto e, insieme all’editor, procede a un lavoro di editing sul testo.
Una buona scrittura che ha bisogno di trovare ancora una nitidezza, un’idea interessante e semplice da comunicare, una storia che contiene già gli elementi giusti ma va probabilmente ripensata nel suo insieme. Il libro non c’è ancora, ma XXX ce l’ha a portata di mano e non dubito che ci sia già più di un editore pronto a scommetterci.
Qualora l’editor trovi un autore di cui apprezza lo stile, ma il cui romanzo non ritiene pronto, può intervenire nella stessa fase di genesi dell’opera: «È successo recentemente con una scrittrice che dovremmo pubblicare l’anno prossimo. Bravissima. Mi ha proposto un libro tre anni fa, scritto bene. La pagina era bellissima, però la struttura non funzionava, e soprattutto la storia che mi raccontava non mi interessava, e come non interessava a me non interessava a nessuno. E quindi a malincuore ho detto no. Me ne ha proposto un altro, […] uguale. Allora ci siamo messi lì e le ho detto: ti faccio il contratto, perché tu sei brava. Hai bisogno di una guida, per cui parliamo, non ti metti a scrivere finché non ne abbiamo parlato, ed è venuto fuori un elemento interessante, che in realtà è il rapporto coi soldi e sua madre, che la tormentava. Se tu intorno a questo mi costruisci una storia, che ovviamente, sarà una storia tua, solo tua… Però se io capisco qual è la tua ossessione, ti sono utile» (CEg).
Gli editori si muovono in un mondo estremamente complicato, in cui l’incertezza è alta sia circa cosa cercare, sia attraverso quali caratteristiche individuarlo. Spesso i romanzi e racconti, che un editore riceve in lettura o intercetta presso riviste o manifestazioni letterarie, vengono considerati come indicatori del valore del loro autore; può succedere che un autore arrivi, attraverso un intermediario, a proporre un’opera a un editore, che questo la valuti e, pur decidendo di non pubblicarla, ritenga opportuno tenere sotto osservazione l’autore, sperando che in futuro il suo talento produca un manoscritto più compiuto.
4. La versione degli agenti letterari[3]
Fino a ora abbiamo presentato il punto di vista di editor, editori e direttori editoriali, di cui abbiamo cercato di descrivere e interpretare le risposte, raccontando la selezione dei manoscritti attraverso le parole di chi lavora all’interno delle case editrici. Spostiamo ora il nostro punto di vista sui più importanti fra gli altri agenti che costituiscono il campo editoriale: gli agenti letterari. Quello che ci dicono, se da un lato è in linea con quanto ci hanno raccontato gli editor, dall’altro evidenzia un interessante parziale disaccordo. Specie quando gli agenti descrivono cosa, dal loro punto di vista, viene cercato dagli editor.
Non sono molti gli agenti letterari che cercano autori italiani inediti: raramente si tratta di un lavoro remunerativo, e in ogni caso possono dedicare poco tempo a questo compito. Che cerchino esordienti o che non lo facciano, comunque, tutti sono destinatari dell’invio di manoscritti, proprio come le case editrici.[4] Queste autocandidature, sostengono gli agenti letterari, sono di qualità media, nella grande maggioranza dei casi non adatta alla pubblicazione, ma comunque superiore a quella delle autocandidature che raggiungono le case editrici. «Normalmente uno che arriva a me si è già informato, ha parlato in giro, sa chi sono. […] I manoscritti terribili terribili sono rari. Quelli mediocri, cioè che non hanno una vera voce e sciorinano cose già sentite, sono tanti. Di cose veramente buone […] fra quelli sconosciuti ne trovo non più di due l’anno». Il lamento sul sovraffollamento di scrittori è unanime: «Se tutti quelli che scrivono leggessero, le case editrici sarebbero meno invase. Sarebbe meglio. Per scrivere devi avere un’idea, invece… Io non mi metto al piano e pretendo di comporre una sonata»; «Larga parte della popolazione, superiore a quella che sa maneggiare lo strumento, ritiene di voler scrivere»; «Io ricevo 3 proposte al giorno, gli editori 10. C’è una quantità di scrittori incredibile. Se tutti questi leggessero un libro alla settimana, avremmo risolto i problemi dell’editoria. Non le dico poi i poeti. Siamo un paese di poeti».
Nonostante, quindi, pochi agenti facciano un lavoro di ricerca vero e proprio, è interessante capire in base a quali criteri valutino positivamente un manoscritto e, di conseguenza, quali manoscritti propongano agli editor: questo ci servirà per capire se ci sia uniformità di vedute fra le due categorie. La prima similitudine è evidente: anche gli agenti letterari sostengono che non si possa razionalizzare il processo che li porta a scoprire se un manoscritto possa funzionare: «È come quando si visitano delle case: uno ne vede tante e dice no, poi ne vede una e dice sì. Perché? Boh! […] [un’opera] mi deve convincere per motivi che non sono razionali. Poi, se mi piace, mi metto lì e mi chiedo perché e razionalizzo, cercando di mettermi dalla parte dell’editore, che è un avvocato del diavolo e tendenzialmente mi smonta [il ragionamento]». Ancora: «Non è razionale, non ho una tecnica per vedere se mi colpisce. Se non ti colpisce riesci a spiegare cosa c’è che non va, ma se ti colpisce non sai dire perché. Se qualcosa mi ricorda qualcos’altro, non mi colpisce. Qualcosa che non mi ricorda niente è un buon segnale. Devo avere voglia di leggerlo. Apri un file e dalla prima frase senti una voce che ti porta per mano. Allora quella è una storia che funziona, non mi chiedo perché, mi faccio portare per mano». Insomma, è più facile spiegare cosa non funzioni, in un manoscritto, di cosa funzioni.
Nelle risposte degli agenti è più evidente qualcosa che, nelle parole degli editor, rimaneva nascosto, più in secondo piano: «Costanti sulla pubblicabilità ce ne sono tante, ma rimane che il libro ci piaccia. Sarà banale, ma se ci piace riusciamo a lavorarlo bene. […] Se un libro è difficile da promuovere posso dire di no. Ad esempio non se ne può più di noir. O se il libro è troppo alto, astruso, elitario. Anche se se ne riconosce la qualità letteraria». Per gli agenti la possibilità che un libro venda è, fin dall’inizio, al centro del processo di selezione dei manoscritti da proporre agli editori; il che è ragionevole, se consideriamo che guadagnano una percentuale sul venduto dei propri rappresentati. Gli agenti letterari sono perciò interessati a selezionare romanzi che possano vendere e sostengono, come del resto gli editor, che non ci sia un rapporto di correlazione necessaria fra valore letterario e successo commerciale. Ciononostante, qualcuno lascia trapelare che esistano libri eccessivamente letterari, che non possono avere successo commerciale. Quali libri, quindi, vendono? Quelli che hanno una buona storia. E sono questi, i libri ricercati dagli editor: «Oggi, è triste dirlo, ma quello che conta è la trama. Gli editori sono alla ricerca di una storia a effetto. La qualità letteraria conta sempre meno. I libri letterariamente molto buoni sono più difficili da vendere, perché gli editori vogliono realizzare. Basta guardare le classifiche, senza fare dei torti, ma è così. Sono operazioni di marketing, soprattutto quando le fanno i grossi editori. Se vogliono vendere un libro lo vendono, anche se è brutto». «E considerazioni commerciali? Sì, ne facciamo. Possiamo prendere un libro che non ha particolari virtù letterarie, ma che abbia un bell’intreccio, scritto bene, divertente, affascinante. Lo prendiamo perché pensiamo possa avere mercato». E, ancora più esplicitamente: «Se ci arriva il capolavoro letterario, lo capiamo e uno lo fa. Ma l’occhio che abbiamo educato, e che è quello che da noi gli editori si aspettano, è se il testo sia vendibile. Di proposte [di manoscritti] ne arrivano infinite a tutti [gli editori]. Per prendere in considerazione una proposta nostra, è abbastanza implicito che loro si aspettino che sia una cosa che funziona un po’. Se no, non hanno bisogno di avere il fastidio del nostro controllo [sul lavoro con l’autore]».
Ed è proprio per la possibilità di vendere, che gli esordienti diventano interessanti per gli editori. «C’è più attenzione agli autori italiani di qualche anno fa, quando era un’operazione in pura perdita. Gli esordienti erano guardati con molto sospetto, poi è cambiato completamente il profilo delle carriere. Adesso l’esordiente può vendere uno sconquasso di copie, meno al secondo libro, poi meno al terzo, al contrario di una volta. Quasi solo gli autori di genere hanno una crescita progressiva [delle vendite]. È anche migliorata la qualità media degli scrittori italiani: le scuole di scrittura e il fatto che gli italiani abbiano letto e assimilato la letteratura internazionale hanno fatto bene. Le storie che funzionano ora o sono molto regionali – tipo Sicilia – o sono storie che parlano globalmente alle persone. Se fai un confronto fra gli anni ’90 e i 2000 la letteratura italiana si è molto snazionalizzata». Allo stesso modo: «È più facile pubblicare esordienti rispetto a qualche anno fa. È migliorata molto la qualità e, siccome si sono verificati episodi di esordienti che hanno sfondato il botteghino, c’è attenzione da parte di molti editori. Non tutti, perché affermare un esordiente non è facile. […] Questo va a scapito del non esordiente, che non ha mai sfondato: fra l’esordiente e l’autore da 5/6mila copie, [l’editore] preferisce l’esordiente. Perché se sfonda va molto oltre le 5/6000 copie […] Penso che l’innalzamento del livello medio sia dovuto anche alle scuole di scrittura, che io credo siano molto utili. Una scuola di scrittura non fa un genio, ma comunque nello scrivere c’è una parte di mestiere, che è bene conoscere. Che le scuole di scrittura possono insegnare». Ci sono anche voci parzialmente discordanti: «È più facile per un esordiente pubblicare perché c’è più attenzione da parte degli editori, c’è la moda dell’enfant prodige. Non perché sia migliorata la roba che spediscono». C’è chi pensa che «la moda degli esordienti passerà. Con un esordiente puoi andare bene o male, ma costa meno e gli fai un contratto meno favorevole. […] Spesso io propongo un autore a un editore che mi chiede quanto ha venduto questo? 10mila. Quanto può vendere? 15mila. Hai una esordiente carina, che la schiaffiamo in tv? E poi magari fa 5mila…».
Un aspetto controverso è se sia opportuno anche per un esordiente affidarsi a un agente. Gli agenti possono lavorare sul testo insieme ai propri autori, e questo sarebbe, dal punto di vista dei primi, enormemente utile soprattutto per un autore inedito, all’inizio della sua carriera: «A volte [i manoscritti] non vanno abbandonati subito, può trattarsi di inesperienza. Una voce con difetti di inesperienza è rilavorabile. Chiedo rilavorazioni sulla base della mia lettura, e se l’autore è in grado di farlo vuol dire che ha un istinto di scrittore, e va bene. […] Lì si vede la differenza. Magari uno aveva una buona idea, ma non è in grado di renderla più spessa. Non adesso, magari fra cinque anni. Non si sa mai. Richiede tantissimo investimento emotivo e in termini di tempo, perché sono scrittori bambini». «Tutti i testi degli esordienti vanno rielaborati a livello di trama. Il nostro lavoro interviene sulla trama fino al momento in cui libro è presentabile. Non è che stiamo a correggere le virgole. L’importante è che il testo parli sufficientemente quando lo si presenta agli editori. Poi ci pensano gli editor». Il lavoro che gli agenti in molti casi conducono sul testo è, quindi, quello di indirizzare la trama, d’accordo con gli autori, più che rivedere lingua e stile: «Con alcuni italiani facciamo anche un lavoro sul testo. È un lavoro di struttura e trama, che farebbe un book doctor, non un lavoro redazionale. Togli quelle 50 pagine, aggiungine qui, fai finire la storia così, cambia quei nomi, anticipami questo… Non mi metto lì sulla frase. Esistono agenzie che fanno lavori redazionali, ma fanno appunto lavori redazionali». Il lavoro sulla trama, da book doctor, conferma quindi quello che avevamo accennato: l’attenzione per la trama, prima che per lo stile. La ricerca di una storia che funzioni, che sia appetibile per i lettori. Ecco cosa cercano gli agenti letterari , cosa si aspettano da loro gli editor.
5. La versione degli intermediari
Oltre a editor e agenti letterari, esiste un altro gruppo di operatori il cui ruolo all’interno del campo letterario è impossibile definire in maniera sintetica. Si può trattare di giornalisti, librai, critici, intellettuali in genere. O, più spesso, di scrittori, che sono anche consulenti o redattori di riviste, che tengono corsi di scrittura, che sono nelle giurie dei premi o delle classifiche di qualità. Ciò che li accomuna non è il ruolo apparente nel campo editoriale, ma il fatto che leggono manoscritti inediti, fungono da filtro e li suggeriscono a editori con cui sono in contatto più o meno stretto. Non sono necessariamente intermediari per lavoro, ma la loro mediazione risulta fondamentale per l’accesso al campo editoriale di autori inediti. Ridotti come numero, ma fondamentali per il campo, sono figure che, connesse a più organizzazioni, istituzioni e agenti, fungono da collegamento fra l’interno e l’esterno del campo editoriale.[5]
Due esempi di queste figure di intermediari mi sono stati citati a più riprese durante le interviste. Il primo è quello di Giulio Mozzi: scrittore di origini vicentine, è oggi consulente di Einaudi Stile Libero. Mozzi è stato in passato consulente di Sironi, editore milanese, ed è editore di Vibrisselibri.[6] Ma, soprattutto, Giulio Mozzi è un punto di riferimento per tutti gli aspiranti scrittori che desiderino essere letti da una persona competente e inserita nel campo letterario. Sulla sua pagina facebook Mozzi indica il suo indirizzo di casa e il suo numero di cellulare, invitando chi voglia a mandargli romanzi; il suo sito ospita l’incipit dei manoscritti da lui ritenuti interessanti. Il secondo esempio è quello di Matteo B. Bianchi: scrittore, autore per la televisione, la radio, il teatro e il cinema, ha a lungo curato una rubrica di racconti di esordienti sulla rivista «Linus». Ha curato antologie e, dal 1995, una rivista on-line, «’tina», che pubblica racconti di autori inediti. Giulio Mozzi e Matteo B. Bianchi sono probabilmente i due più importanti riferimenti per aspiranti esordienti che vogliano veder letti e valutati i propri scritti. Ciò che li accomuna ad altre figure di intermediari è l’interesse verso le nuove scritture e i nuovi scrittori: se trovano qualcosa che reputano di qualità, lo segnalano alle case editrici. Ma cosa cercano? Le descrizioni non paiono troppo diverse da quelle degli editor. Giulio Mozzi: «Posso fare esempi, non generalizzazioni. […] Un giorno mi chiama Mauro Covacich e mi manda un manoscritto: mi arriva un pacco così. Comincio a leggere, stavo andando a Pordenone. Salto la stazione di Pordenone perché ero troppo preso e chiamo Tullio Avoledo [l’autore del manoscritto]. Lì mi impressionava la meccanica narrativa perfetta, molto ammirevole, e la grande moralità del tutto. […] Ogni tanto mi capita di aprire un manoscritto e di arrivare fino in fondo, dimenticandomi di qualsiasi cosa stia facendo. […] Non mi ricordo cosa vidi nelle prime cose di Mariolina Venezia nel ’98, ma mi sembrava forte. Nelle prime cose di Diego De Silva, mi colpì la precisione dei particolari e l’economia discorso: stilisticamente è un piccolo Pontiggia». Matteo B. Bianchi è più analitico:[7] «Intanto posso dire che, anche se suona poco professionale, posso leggere le prime cinque righe o le ultime cinque righe e ho capito com’è [il racconto] nel 90% dei casi. Quello che a me convince in un racconto è la personalità. Anche una storia che non è scritta benissimo, ma trasuda originalità nella scrittura, in genere mi convince. Mi convince di più uno stile magari non particolarmente corretto e raffinato, ma vivo, rispetto a cose più classiche. A volte ci sono esordienti pubblicati in libreria che io non avrei mai accettato, ma io non ho una collocazione editoriale come consulente, anche se l’ho avuta per un po’. Quindi lo faccio per passione, il che mi libera da un sacco di vincoli. Se mi piace lo pubblico. Se non mi piace, fine. Poi a me è capitato di curare antologie o progetti collettivi: ho imparato a capire la qualità del testo a prescindere dal mio gusto personale. “’tina” rappresenta il mio gusto, le antologie no. Ho pubblicato cose che stavano benissimo in quel progetto, anche se io come lettore non avrei scelto quel racconto o quell’autore. […] In generale prediligo letteratura ironica, anche un po’ di giovanilismo. Spesso un po’ leggera: io uso la definizione pop, che abbia riferimento alla cultura pop, il contrario dell’accademico». Altri intermediari danno risposte più evocative: «Io penso sostanzialmente che i libri non siano soggetti cinematografici, e quindi mi piace trovare una scrittura nei libri. Però penso una cosa, e lo penso da quando l’ho letta in un diario di Virginia Woolf: che bisogna sempre leggere con le orecchie. Cioè che il ritmo è sovrano, perché il ritmo si porta appresso le parole, e le parole si portano appresso la storia. Il ritmo narrativo di Gadda non avrebbe mai potuto raccontare Bassani. Non l’avrebbe mai potuto fare, perché il suo ritmo si portava delle parole che raccontavano storie diverse. […] Ad esempio, io e Paolo Giordano non potremmo mai raccontare la stessa cosa, perché abbiamo ritmi narrativi diversi, che si portano dietro parole diverse, e quindi storie diverse. E questo non significa che io come lettore non apprezzi La solitudine dei numeri primi. Lo apprezzo, mi è piaciuto. […] Quindi, quando prendo manoscritti in mano, cerco di leggere con le orecchie, di mettermi in ascolto. E sembra una cosa vaga, in realtà non lo è assolutamente. Non lo è. Perché cercare il ritmo significa comunque cercare la lingua, e trovare in quella lingua delle storie che sono [belle]».[8] O, ancora: «È un mix di fiuto commerciale, pensiero laterale e intelligenza emotiva: una volta ogni 500 manoscritti, dopo pochi secondi capisci che c’è qualcosa. […] Io so quali sono le cose che mi interessano e scarto cose che interessano ad altri. Siamo come cani addestrati per l’antidroga, che hanno dei periodi finestra in cui sono attivi e altri in cui non si accorgono di nulla. I cani antidroga hanno una mezz’ora di attività ogni due ore. Noi abbiamo fasi di creatività della vita che ci costringono a cercare, e siamo dei furetti, ma cerchiamo solo un tipo di droga. Tanti sono i tipi di cane quante le case editrici».[9]
Un aspetto da tenere in considerazione, comunque, è quanto questi intermediari siano contigui alle case editrici: chi non è e non è mai stato consulente editoriale, pur suggerendo manoscritti, sembra usare come discrimine soprattutto il proprio gusto. Ad esempio, lo scrittore Paolo Nori: «Chiaramente il mio punto di vista non è un punto di vista editoriale. Ho il mio gusto, non mi preoccupo, quando leggo le cose, che una possa incontrare il gusto del pubblico. Considero pubblico me stesso… poi neanche, non ci penso nemmeno. Se il libro mi piace, lo consiglio, cercando di immaginare qual è la casa editrice [adatta]». Un caso molto interessante è quello de “iQuindici”: un gruppo di lettori volontari, costituitisi nel 2002 per rispondere a un appello dei WuMing, subissati da manoscritti che non riuscivano più a gestire. “iQuindici” sono oggi circa 40: «i profili professionali dei quindicini sono e sono sempre stati i più vari. Dal disoccupato al commerciante all’ingegnere all’insegnante all’informatico, qui è passato veramente di tutto. La cosa che ci sta più a cuore è l’amore per la lettura, e questo può essere coltivato da chiunque. Anzi, esperienze di vita diverse, crediamo, arricchiscono l’approccio collettivo alla discussione sui manoscritti più interessanti. Non mi pare ci sia mai stato nessuno il cui principale lavoro fosse nell’editoria. […] Invece, ci sono stati e ci sono scrittori tra i quindicini».[10] «Il progetto de “iQuindici” ha lo scopo di dare consigli e aiuto a chi scrive, e di promuovere un diverso concetto di accesso alla cultura, che si attua in buona parte con l’utilizzo e la promozione del copyleft[11] che ne consente una diffusione orizzontale»:[12] interessante è dunque capire come si organizza per valutare i testi questo gruppo, che in passato ha segnalato a case editrici anche testi importanti che sono stati poi pubblicati.[13] «Ogni testo che riceviamo viene assegnato a due lettori, che invieranno il loro parere all’autore. A differenza di quanto avviene nelle case editrici, ci impegniamo a leggere i manoscritti integralmente, tranne qualche raro caso in cui questo si rivela davvero impossibile, di solito per problemi tipo una insostenibile pesantezza della lettura unita a lunghezza fluviale dell’opera, oppure qualche motivo “ideologico” [contenuti razzisti, omofobi, fascisti eccetera]. In questi casi, facciamo presente all’autore le ragioni per cui la lettura ci è risultata impossibile. A questo punto, il nostro impegno con l’autore sarebbe finito. Se però uno dei due lettori, o magari entrambi, trovano un manoscritto che gli sembra, per qualunque ragione bello o interessante, lo segnalano agli altri quindicini, perciò il testo riceve ulteriori letture (che non sono più assegnate, ma sono su base volontaria). A seconda del grado di approvazione collettiva che il manoscritto raggiunge, può essere pubblicato sulla nostra rivista “Inciquid” o, in qualche caso, essere anche segnalato agli editori. In questo processo, ci aiutiamo usando voti numerici, ma questo spesso non basta a evitare lunghe discussioni e addirittura polemiche sul valore del manoscritto – che a dire il vero poi sono la parte bella del lavoro. […] Non ci siamo dati regole o criteri prestabiliti a cui attenerci nella valutazione, quindi ognuno di noi può aver dato un buon voto per una ragione differente. Del resto, è quello che accade per tutti i libri, probabilmente: ogni lettura è diversa dall’altra».[14]
Anche per quello che riguarda le considerazioni di natura commerciale, si nota una tendenza che è collegata alla maggiore o minore contiguità dell’intermediario a una casa editrice. Chi non ha contratti consulenziali è poco interessato alla vendibilità di un manoscritto. Paolo Nori, scrittore: «Faccio molta fatica a ragionare in questi termini. […] È anche abbastanza difficile dire cosa [possa vendere]. Ci sono poi dei libri che uno s’immagina che andranno bene [e non vanno bene]. Quel che piace a me, in generale, non so. Per esempio Fìdeg è andato molto bene, il primo di Paolo Colagrande, e non è un tipo di libro costruito per andare bene». Similmente anche “iQuindici”: «I princípi stessi di libera diffusione della cultura, di copyleft, di lettori volontari per passione, implicano proprio la ricerca e il desiderio di qualcosa al di fuori dei criteri di mercato. Il che non vuol dire che alcuni dei libri da noi scoperti non abbiano poi ottenuto un buon successo di vendite. […] Riteniamo che una lettura orizzontale, “dal basso”, come quella che noi offriamo, può e ha effettivamente aiutato a emergere alcuni buoni libri». Mentre Chiara Valerio, scrittrice, ma anche consulente per la casa editrice Nottetempo: «In realtà ci capita di dire questo libro è bellissimo, ma lo compriamo in tre. Ovviamente il lavoro del consulente da questo punto di vista è più facile, perché tu gli dici [all’editore] questo libro è bellissimo, è un libro clamoroso, però lo leggiamo in tre. Dopodiché qualcun altro deciderà se investire in quei tre lettori oppure no». Matteo B. Bianchi ha un approccio molto concreto: «Penso che la letteratura per sua natura sia uno dei campi in cui non vale la raccomandazione, non vale il nome, perché leggere è un piacere ma è anche un impegno. Chiaro che se sono il figlio di Berlusconi o Moravia mi fanno fare il libro subito, ma non vuol dire che avrà successo. Magari venderà per il mio nome, ma non sarà un successo, come noi intendiamo un successo letterario. Perché se il libro è brutto la gente non lo legge proprio e non farà passaparola. Mentre ad esempio Paolo Giordano, che nessuno se lo aspettava, è un libro di grande qualità. Può piacere o non piacere, ma non dici che è una schifezza, dopo averlo letto. È anche difficile, non ha il lieto fine. Gomorra è tutto tranne un libro semplice. Oppure Faletti: chiaramente la sua notorietà non giustifica un successo del genere, perché se pensi a quanti comici, anche più famosi di lui, hanno scritto delle cose… Claudio Bisio non è in classifica coi suoi libri, ma ne fa. Se il libro non piace non vai avanti». Mentre Mozzi: «Per me il rapporto fra la bellezza di un libro e il suo successo commerciale è abbastanza preciso: non è per caso se un’opera resta popolare. Resta, non diventa. Alcuni dei romanzi di Salgari, ma solo quelli e non tutti: se restano anche nella mia memoria c’è una ragione. Non sarà perché sono belli? […] Poi è chiaro che ci sono diversi tipi di bellezza. […] La bellezza è storica, se noi cerchiamo di leggere Tibullo è noioso, anche Catullo. Saffo no, perché? Non lo so. Bisognerebbe intervistare 14 filologi per aver dati su cui ragionare. La bellezza cambia nel tempo. Perché è rimasto Don Chisciotte e non gli altri scritti di Cervantes che sono più letterari? Non lo so. […] Nell’immediato non c’è nessuna relazione: la maggior parte libri brutti non ha successo, alcuni libri belli hanno successo». Ed è interessante quello che dice Mozzi circa la bellezza di un libro: «La qualità è il pudico nome della bellezza in una società industriale. Ovvero se non si ha fegato di dire che un libro è bello, si dice che è di qualità. […] Parlare di qualità e non di bellezza serve a non affrontare il tema della bellezza, cercando presupposti oggettivi, ma mi sembra filosoficamente insostenibile. La “letteratura di qualità” è una categoria merceologica».
Ma queste risposte non bastano a capire l’atteggiamento degli intermediari verso il successo commerciale. Lo stesso Mozzi, del resto, nonostante l’unanime stima che ho riscontrato nelle interviste verso la sua opera di scopritore di scrittori inediti, sembra schernirsi: «Se porto un libro in redazione viene normalmente rifiutato, perché la selezione è dura e ora è durissima. […] È più facile dire no che sì, visto che di solito porto autori senza storia alle spalle. […] La differenza fra me e gli altri sta nella forma di disponibilità che io ho scelto come metodo, è anche un’etica. Per chi sta nelle case editrici l’autore inedito non contrattualizzato prende un sacco di tempo: bisogna stargli distante. Se [invece] io porto un testo, viene guardato con attenzione e interesse, specie se è lontano dal mio gusto». Ma secondo Alberto Castelvecchi, oggi agente e consulente, ma in passato editore e fondatore dell’omonima casa editrice, che ha lanciato molti esordienti che hanno avuto successo: «Un gate-keeper fa o non fa pubblicare libri, e i libri hanno un risultato commerciale. Lui rimane a galla a seconda che gli editori lo vedano come un fastidio o una risorsa. È uno degli elementi dell’ingranaggio del mercato editoriale e ciò è incontestabile. […] Io ho una reputazione come scopritore di talenti perché ho scoperto talenti. Ma non lo dico io, bensì il risultato di mercato». Anche se l’attenzione soprattutto al risultato commerciale non accomuna tutte le realtà editoriali italiane: «Nelle case editrici piccole, e/o, minimum fax, le solite, i risultati sono soprattutto culturali. Ma i mediatori culturali di oggi hanno esercitano anche una mediazione industriale, quelli di ieri invece erano solo mediatori culturali» (Castelvecchi). Inoltre le dinamiche che determinano l’apprezzamento culturale sono cambiate: «Capisci presto chi è la serie A [dell’editoria]. La serie A è fatta da non più di 300 persone. […] Ma entro quelle 300 persone c’è una sub-mafia più ristretta, di massimo 150 persone, che determina i risultati culturali. Sono difficili da misurare. […] Una volta le recensioni valevano. Ma ora l’attribuzione di un prestigio culturale è fatta da reputazione critica, reputazione mediatica e reputazione su internet. Ma tutti sono molto sospettosi sulle pagine culturali e sulle recensioni» (Castelvecchi).
Peraltro gli agenti del campo letterario che cercano autori e opere inediti sono solo marginalmente interessati alla loro commercializzazione. E, comunque, non si ritengono particolarmente capaci di valutare questo aspetto. Eppure sono gli intermediari più stimati per la loro capacità di individuare talenti: non credo proprio che questo riconoscimento dipenda solo dalla loro disponibilità. È più ragionevole pensare che siano riconosciuti da editor ed altri agenti costituenti il campo editoriale per via di capacità e conoscenze tacite, difficilmente trasferibili e codificabili, ma fondamentali per la ricerca di opere inedite.
6. Narrazioni a confronto
Abbiamo descritto i criteri di selezione che guidano gli attori che, nel campo letterario, detengono la legittimazione a valutare, scegliere o consigliare testi per la pubblicazione. I discorsi di editor, editori, direttori editoriali, agenti letterari e intermediari coincidono nella fase di analisi: c’è convergenza nella descrizione del catalogo di tutte le caratteristiche che un romanzo dovrebbe avere per essere buono, interessante, pubblicabile. Le differenze cominciano a emergere quando si va a mettere in luce quali, di questi aspetti, siano prioritari.
Gli editor, nel loro insieme, individuano due gruppi di caratteristiche principali: lingua, voce e stile da un lato; storia, tema e struttura dall’altro. Nel raccontare il loro lavoro di ricerca, sostengono di attribuire attenzione ad entrambe le caratteristiche ma, ad un’analisi più approfondita, si vede come gli editor delle case editrici più grandi si riferiscano più spesso alla storia, che alla lingua. Viceversa, e in maniera ancora più forte, gli editor delle medie editrici sono molto più focalizzati su lingua e stile. Il motivo può essere probabilmente ricercato nel bisogno di trovare un proprio spazio nel mercato editoriale. I gruppi più importanti hanno un preciso posto negli scaffali delle librerie, un marchio riconosciuto ed una lunga tradizione. I loro sforzi non sono più diretti a farsi conoscere, differenziandosi dai concorrenti; è piuttosto importante, per loro, l’affermazione di ogni libro pubblicato. Lo confermano gli agenti letterari quando sostengono che le grandi case editrici cercano storie che funzionino, più che libri letterari. Viceversa, il bisogno degli editori medi di conquistare una nicchia, in cui affermare le propria identità, passa principalmente dall’affermazione del proprio spessore culturale. La ricerca di testi di qualità è conseguenza del bisogno di competere in maniera diversa rispetto ai propri avversari di dimensioni maggiori. Se una Minimum Fax replicasse semplicemente la strategia di una Mondadori, senza averne la forza commerciale e dimensionale, avrebbe vita e fortuna brevi. Invece la comunicazione della propria diversità, insieme alla sincera ricerca di opere che la giustifichino, permette di rafforzarsi presso fasce di lettori tradizionalmente intesi come appartenenti ad una élite culturale. Tutto questo, vale la pena sottolineare, sia detto senza giudizi di valore alcuno sul catalogo di questa o quella casa editrice: non siamo noi a doverli e poterli dare. La necessità di un “manico” o di un focus specifico per ogni libro, evocata dagli editor delle grandi editrici, ma non da quelli delle medie, conferma quanto detto: il discorso delle medie va nella direzione di caratterizzare i libri come di qualità. Nel momento in cui questo argomento è sottratto alle grandi, è necessario per queste comunicare ogni singolo libro in maniera peculiare.
Ciò in cui invece si somigliano le narrazioni degli editor è nell’indicare come fondamentali per il proprio lavoro di ricerca e selezione fiuto e altre caratteristiche inerenti una capacità tacita, non codificabile. Si tratta di un sapere pratico, un habitus, per dirlo nella terminologia di Bourdieu. Si diventa editor per fiuto e «apprendendo il mestiere come nelle botteghe artigianali del medioevo» (Castelvecchi). Non si può poi non affrontare l’annosa questione del rapporto fra successo commerciale e qualità di un’opera letteraria. Va però rimarcato come questo secondo concetto sia sfuggente ad una definizione precisa. Si invoca la qualità ma non la si può descrivere. È quello che dicono gli editor e gli altri agenti del campo letterario nelle pagine che abbiamo visto. È quello che mi ha detto un importante critico letterario quando l’ho intervistato, sostenendo che sarebbe stata necessaria un’altra intervista di tre ore, per cominciare a sbozzare il problema. Detto questo, nei discorsi degli editor delle case editrici più grandi, sono presenti in maggior misura criteri di natura commerciale, in quelli delle medie criteri che hanno a che vedere col valore letterario. Le piccole si caratterizzano maggiormente per una identificazione della linea editoriale coi gusti dell’editore. Ovviamente non si può avere la pretesa di generalizzare, ma le case editrici di maggiori dimensioni sarebbero quindi più rivolte al successo economico, le medie al riconoscimento culturale. È una conclusione che non stupisce, del resto, visto che le prime appartengono a gruppi industriali, a volte quotati in borsa, mentre le seconde hanno una diversa struttura proprietaria, con minori costi fissi. Ed è anche confermata dalle parole degli agenti letterari, che sostengono che gli editor richiedono loro opere in grado di vendere: per quello che abbiamo visto, si tratta di opere dalla storia forte, più che manoscritti molto letterari.
Quella del rapporto fra dimensione e orientamento è una chiave di lettura ragionevole, ma che appare incompleta e, quindi, parzialmente insoddisfacente: è come se ci fosse un cospicuo rimosso collettivo, specie in chi lavora per le case editrici a vocazione più industriale, che riguarda il fatto che i libri sono destinati ad essere venduti. Un rimosso che si presenta come excusatio non petita o come una narrazione di se stessi e del proprio lavoro che tende non enfatizzare l’obiettivo di vendere libri. Una narrazione della propria professione come si vorrebbe che fosse, forse, più che come effettivamente è.[15] Quasi come se vendere molti libri fosse una cosa sporca, poco etica. Lo si evince bene dal fatto che, quando ci viene detto che le case editrici sono imprese commerciali, e che quindi devono vendere per sopravvivere, questa affermazione viene fatta come se fosse una presa di posizione coraggiosa, e non una tautologia. Si tratta probabilmente della conseguenza di un pregiudizio ancora molto forte, nell’ambito editoriale, che riguarda la divisione fra una cultura alta e una bassa, una riservata alle élites e una che vende. Ne raccogliamo svariate evidenze: nella continua, trasversale a tutti gli intervistati, difesa della qualità, ad esempio, di La solitudine dei numeri primi, apparentemente messa in dubbio dal suo successo, o nel fatto che tutti sembrano avvertire la necessità di sostenere che non necessariamente un libro che vende debba essere brutto. L’idea che ci siamo fatti è che gli editor sono più interessanti a vendere libri di quanto non vogliano ammettere, temendo critiche e accusa di venalità. Non pensiamo che vendere libri ne mini il valore culturale, ma smontare questo pregiudizio va oltre il nostro obiettivo attuale. Quello che abbiamo provato a fare è stato gettare luce sui criteri adottati dai diversi attori del campo letterario nello scegliere libri, mettendo in luce alcune discrepanze emerse confrontando le rispettive narrazioni. Rimane un cammino interessante per la ricerca futura. Quello che ci interessa maggiormente, in questa sede, è constatare che, probabilmente, il timore di apparire troppo interessati alle vendite ha fatto sì che i discorsi degli editor fossero in parte normalizzati a un ideale di quello che è giusto e opportuno raccontare circa la fase di selezione e ricerca.
Il tema dell’esordio resta infine particolarmente interessante da questo punto di vista: si concentrano qui sia aspetti economici che culturali. I primi, più frequentemente evocati a giustificare la ricerca di nuovi autori. I secondi, motivati dalla ricerca di un rinnovamento: nuove voci, nuove scritture in grado di raccontare tempi nuovi. Riteniamo che l’analisi degli esordienti sia un terreno privilegiato per studiare le politiche di selezione da parte degli editor: in questo caso, infatti, tutto il potere contrattuale, tutta la forza di scelta è dalla parte loro e delle case editrici. Non ci sono successi precedenti a giustificare nuove pubblicazioni. L’analisi interdisciplinare degli esordi letterari ci può permettere di capire molto su come funziona il campo editoriale contemporaneo.
Repertorio degli intervistati[16]
Si riporta l’elenco completo degli intervistati: le citazioni testuali riportate in questo articolo riguardano solo parte di essi; cionondimeno ogni intervista è presente in filigrana, avendo contribuito alla complessiva comprensione dei meccanismi che si è cercato di descrivere.
Editor (CE grandi)
Edoardo Brugnatelli (Mondadori); Antonio Franchini (Mondadori); Silvia Demichele (segreteria letteraria Mondadori); Joy Terekiev (Mondadori); Dalia Oggero (Einaudi); Paolo Repetti (Einaudi Stile libero); Michele Rossi (Rizzoli); Alberto Rollo (Feltrinelli)
Editor (CE medie)
Laura Bosio (editor indipendente; consulente editoriale di Guanda); Gianluca Catalano (e/o); Francesco Colombo (Baldini Castoldi & Dalai); Jacopo De Michelis (Marsilio); Nicola Lagioia (Minimum Fax); Martina Testa (Minimum Fax)
Editor (CE piccole)
Marianna Martino (Zandegù); Davide Musso (Terre di Mezzo); Giorgio Pozzi (Fernandel); Claudia Tarolo (Marcos y Marcos)
Agenti letterari
Valentina Balzarotti Barbieri (ALI); Luigi Bernabò (Luigi Bernabò & Associates); Kylee Doust (Kylee Doust Agency); Agnese Incisa (Agnese Incisa Agenzia Letteraria); Roberto Santachiara (Roberto Santachiara Literary Agency); Stefano Tettamanti (Grandi & Associati); Marco Vigevani (Marco Vigevani Agenzia Letteraria).
Altri agenti costituenti il campo letterario
Paolo Nori; Luigi Bernardi; Gianluca Morozzi; Tiziano Scarpa; Michele Vaccari; Wu Ming 1; Wu Ming 4; Jadel Andreetto; Silvia Avallone; Paolo Giordano; Roberto Saviano; Massimo Vitali; Chiara Valerio; Giulio Mozzi; Matteo B. Bianchi; Giorgio Vasta; Marco Peano; Helena Janeczek; Alberto Castelvecchi; Federica Manzon; Dario Voltolini; Roberta Vasario; IQuindici; Ermanno Cavazzoni; Viktoria von Schirach; Andrea Cortellessa; Stefano Salis; Romano Montroni; Marino Sinibaldi; Cesare Sughi; Riccardo Fedriga; Angela Castellano; Luca Devigili
 

 

[1] Gli esempi erano la trilogia Millennium di Stieg Larsson (Marsilio 2007-2009) e L’eleganza del riccio di Muriel Barbery (e/o 2007).
[2] Come nella citazione che segue, per motivi di riservatezza non posso citare la fonte.
[3] Anche in questo paragrafo, per motivi di riservatezza, non attribuiremo le dichiarazioni ai singoli intervistati.
[4] Non si fa riferimento qui alla valutazione a pagamento di manoscritti inediti, realizzata da diversi agenti letterari. Si tratta infatti di un’attività che non è orientata a selezionare manoscritti da proporre agli editori.
[5] Una trattazione più diffusa di questi intermediari è oggetto di un mio altro articolo tratto dalle tesi, attualmente in revisione per la pubblicazione.
[6] Il sito http://vibrisselibri.wordpress.com pubblica, con la formula del copyleft, opere letterarie e saggistiche liberamente e gratuitamente scaricabili; è anche una sorta di agenzia letteraria, che propone alle case editrici tradizionali le opere già pubblicate in rete.
[7] Giulio Mozzi valuta romanzi, Matteo B. Bianchi racconti. La differenza non inficia il discorso sul ruolo di mediazione, serve, anzi, a presentare esempi diversi.
[8] Intervista a Chiara Valerio, scrittrice, consulente di Nottetempo, redattrice di «Nuovi Argomenti» e «Nazione Indiana».
[9] Intervista ad Alberto Castelvecchi, agente letterario, consulente editoriale, ex editore.
[10] Intervista a “iQuindici”.
[11] L’espressione copyleft indica un sistema di gestione del diritto d’autore analogo a quello delle licenze creative commons, che si articola in diverse possibili licenze, accomunate comunque dalla fruibilità gratuita dell’opera, a patto che non venga usata per scopi commerciali e, se modificata o riprodotta, lo sia sotto la licenza originaria.
[13] Tutti i romanzi segnalati da iQuindici e poi pubblicati sono disponibili gratuitamente sul sito del gruppo: www.iquindici.org/download.php?list.19
[14] Intervista a “iQuindici”.
[15] Per quello che vale, l’opinione di chi scrive è che se si pubblica un libro, desiderio condiviso dell’autore e dell’editore sia che l’opera sia letta da più persone possibili. Nell’attuale industria editoriale ciò equivale a dire che sia venduta nel maggior numero di copie possibili.
[16] Il riferimento alla sede di lavoro è riferito agli anni delle interviste (2010-2011); ringrazio per la disponibilità tutti gli intervistati, e in particolare Giulio Mozzi. Un grazie ad Anna Baldini e Michele Sisto per i preziosi consigli riguardo questo articolo.
[Immagine: Candida Höfer, Witt Library, London (2004) (gm)].

 

Marco Baldino. Foucault e la fine della storia

30 Mag

 

 
 
Foucault e la fine della storia.
Contributo alla discussione sul Nuovo realismo
di Marco Baldino
 
28 maggio 2013 
 
 
1.
 
Un giorno Foucault va a un convegno di medici che discutono sulla “Natura del pensiero medico” e dice: «da Balint [1896-1970] in poi voi dite che il malato manda dei messaggi e che il medico li ascolta e li interpreta» («Messaggio o rumore? 1968» (1)). Tuttavia, perché si dia messaggio è necessario un codice. Ma questo codice non c’è o, per lo meno, non c’è nella natura. La malattia — dice Foucault — si limita al rumore, tutto il resto ce lo mette la medicina. Ed è solo da un secolo e mezzo (e non «sin da quel povero Ippocrate») che la medicina lavora sul rumore per trarne qualcosa come un messaggio. (2)
 
In sostanza Foucault dice:
a) che la medicina è un linguaggio;
b) che la struttura epistemologica della medicina a questo punto può essere compresa solo da un punto di vista di linguistica comparata;
c) che il suo è un approccio è strutturalista (ma questo viene detto, diciamo così, solo tra le righe).
Foucault conclude poi il suo discorso con un interrogativo che porta completamente fuori strada:
 
«A quando un seminario che riunirà medici e teorici del linguaggio e di tutte le scienze ad esso collegate?»
 
Questa conclusione è, come l’appartenenza di Foucault al movimento strutturalista, puramente occasionale ed estrinseca.
 
Ed ecco cosa emerge invece dal discorso di Foucault se si lasciano cadere gli elementi occasionali (il fatto che parlava a dei medici) e quelli troppo strettamente collegati alla koinè teorica del momento (lo strutturalismo):
1) la malattia non invia messaggi;
2) la malattia si limita al rumore;
3) non c’è codice nella natura,
4) tutto il resto lo fa la medicina (il codice, il messaggio, l’interpretazione ce li mette la medicina).
Un altro fatto interessante da rilevare proprio a questo punto è che Foucault cita Ippocrate ma solo per tagliarlo fuori dal discorso, che si vuole invece limitare all’ultimo secolo e mezzo. Ciò che invece a me preme ha inizio proprio con Ippocrate, e con Socrate e si fissa con Platone.
Se è vero che gli inizi della filosofia sono segnati da questa doppia cattura: la filosofia si struttura sui canoni della medicina e, in compenso, la medicina riceve dalla filosofia: a) un posto nel sistema generale dei saperi; b) il sostegno di un fondamento e di uno statuto epistemologico, allora, se spostiamo l’attenzione dalla natura filosofica del pensiero medico all’architettura medica del discorso filosofico, tutto si ricolloca proprio a partire da quel povero Ippocrate; ossia: ciò che Foucault dice a proposito della medicina come linguaggio lo si ritrova pari pari nella filosofia agli inizi.
 
Io credo che Foucault volesse lasciar fuori Ippocrate per due motivi essenziali:
1) perché, come ho già detto, Foucault non voleva dare l’impressione di affrontare il problema da un punto di vista filosofico, ovvero storico-filosofico;
 
2) perché il suo approccio “storico” nell’affrontare questioni filosofiche (la “natura” del “pensiero medico”) presupponeva una radicale storicizzazione dello sguardo analitico — non si tratta di collocare l’essenza del pensiero medico nell’ambito della storia universale dello spirito, ma di dimostrare che questa stessa essenza è storica.
Se tuttavia spostiamo l’attenzione dall’essenza (storica) del pensiero medico all’architettura (medica) del discorso filosofico le due pregiudiziali vengono a cadere, anzi, il fatto di questa caduta costituisce il fulcro del mio ragionamento.
 
Ciò che Foucault dice della medicina può essere ripetuto per la filosofia ossia per quel particolare uso della mente che si pensa non come particolare, ma come universale: da Platone in poi si sostiene che l’infinità sincategorematica degli enti mandi dei messaggi e che il filosofo sia colui che, ascoltandoli e interpretandoli, costruisce su di essi un sapere, il sapere di ciò che le cose sono in quanto generali determinazioni di un essere assoluto, categorematico, che tutto abbraccia. Tuttavia, perché si dia messaggio, è necessario un codice. La filosofia ritiene che questo codice sia già nell’essere, tuttavia, ahimé, l’infinità degli enti si limita al clamore, nel caos non c’è nessun codice, ed è invece la filosofia che, dopo aver riconosciuto che vi è del rumore, fa tutto il resto:
a) suppone che questo rumore sia portatore di elementi isolabili (il filosofo è appunto un clinico dell’essente);
 
b) suppone che questi elementi siano associabili in modo costante ad altri elementi di cui si dispone il senso;
 
c) infine osserva e registra la regolarità di talune configurazioni di elementi.
La filosofia — si potrebbe dire — codifica, ovvero ricerca nel caos, finché, a furia di percorrere e ripercorrere determinate linee traiettorie, non trova delle regolarità (che per lo più emergono dai suoi stessi movimenti iterativi), quindi assume tali regolarità come intenzioni di messaggio e vi articola un discorso, sul quale edifica poi un sapere (che si vuole certo in quanto fondato sull’intuizione che sottomette l’infinità sincategorematica dell’ente alla totalità catgorematica dell’essere) intorno al fluire degli enti.
 
 
2.
 
Foucault conclude il suo discorso sulla medicina con un autentico coup de scène:
 
«La vittoria sul rumore — egli dice — non ha ancora potuto essere assicurata da un unico codice e, forse, non lo sarà mai».
 
Il significato che tale affermazione riveste per la medicina è abbastanza scontato, significa che quel sapere particolare che è la medicina non avrà mai il pieno dominio sulla malattia — il che, da un certo punto di vista, vuol significare anche la natura aperta del sapere medico, il fatto che in medicina si dà progresso, che la medicina è un sapere perfettibile nei metodi e accrescibile nei campi d’applicazione. Non così in filosofia la quale è un sapere che interpreta se stesso non come un sapere aperto (cioè imperfetto) sul clamore degli enti, ma come un sapere concluso, perfetto, a cui non è possibile aggiungere alcunché. In un’intervista rilasciata a La Quinzaine litteraire nel 1968 Foucault dice qualcosa di significativo sulla filosofia, dice che la filosofia, «cioè quella cosa che ha la pretesa di dire che cos’è la vita, la morte, la sessualità, se Dio esiste o non esiste, che cos’è la libertà, che cosa bisogna fare in politica, come ci si comporta con gli altri, ecc. è qualcosa che non si dà più, non in questa forma, non con queste pretese …».
 
Non ho alcun dubbio sul fatto che, al di là dell’occasione, Foucault avesse maturato sin dal ’66 quella concezione, poi espressa nel ’68, sulla «fine della filosofia» in cui risuona un’articolazione filosofica che va da Nietzsche a Heidegger e da Kojève a Bataille.
 
Questa problematizzazione del pensiero medico contiene già quella problematizzazione del filosofico che, sebbene non tematizzata mai in modo diretto, diverrà il motivo conduttore di tutta la ricerca foucaultiana. In una lettera del 1967 da Civitavecchia Foucault scrive: «leggiucchio Nietzsche; credo di cominciare a capire perché mi ha sempre affascinato. Una morfologia della volontà di sapere nella civiltà europea che abbiamo lasciato da parte a favore di un’analisi della volontà di potenza». Ecco il centro di tutta la questione. Quella frase sul rumore e sull’impossibilità di vincerlo rappresenta, in filosofia, qualcosa di scandaloso, uno scandalo che identifica perfettamente Foucault e che Foucault non smetterà di rinnovare nel corso degli anni.
 
Nel saggio sulle «Devianze religiose» (vedi nota sopra) Foucault riprende il tema dell’esclusione su cui si era aperta sostanzialmente la sua ricerca (cfr. «Prefazione alla Storia della follia. 1961», in Archivio I, pp. 49-58): in ogni cultura — scrive Foucault — esiste una serie coerente di gesti di separazione la cui funzione è però ambigua: nel momento in cui tracciano il limite aprono lo spazio di una trasgressione sempre possibile (Foucault chiama questo spazio “sistema del trasgressivo”); questo spazio non coincide né con l’illegale o con il criminale, né con il rivoluzionario, né con il mostruoso o l’anormale, né con la somma di tutte queste forme di devianza, tuttavia, ciascuno di questi termini lo definisce almeno obliquamente; la coscienza moderna tende a ricondurre la delimitazione dell’irregolare, del deviante, dell’irragionevole, dell’illecito e anche del criminale alla distinzione normale/patologico. Tutto ciò che la coscienza moderna si rappresenta come “estraneo”, “intrusivo” è trattato con i metodi dell’esclusione quando si tratta di giudicare, con quelli dell’inclusione quando si tratta di spiegare.
 
Tale affermazione ha in Foucault un carattere generale.
 
Rapportando tale affermazione al nucleo della nostra argomentazione e mettendola in collegamento con la questione del messaggio e del codice, essa prende il seguente significato:
 
1) vi è tutta una parte dell’ente il cui clamore non giungerà mai all’orecchio del filosofo se non per essere rigettato, forclosverworfen.
 
2) La filosofia, come sapere incontrovertibile della totalità dell’ente, non si dà più. E non si dà più proprio perché è diventato chiaro che la totalità dell’ente non manda alcun messaggio, che il caos non ha codice, che è il filosofo a introdurvi un senso e che, per riuscirvi, deve operare un ritaglio nell’infinità sincategorematica dell’ente per mezzo del quale si produce, poi, ciò che Foucault chiama il “sistema del trasgressivo”, che è la stessa cosa a cui Bataille si riferiva chiamandolo “il sistema dell’eterogeneo”.
 
3) I codici cambiano quindi continuamente e pertanto un sapere certo dell’immutabile, se mai si è dato, ora non si dà più. 
 
 
 
(1) Archivio Foucault, vol. I (1961-1970), a cura di Judith Revel, trad. di G. Costa, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 133-136.
 
(2) Il problema di questo «da un secolo e mezzo» anziché «dalle origini» è un tratto classico o che diverrà classico in Foucault il quale vuole soprattutto mettere in chiaro che non sta lavorando come un filosofo (non si occupa di categorie, ma di fatti, fatti contingenti). Tuttavia, se il procedimento di Foucault si presenta come una sintesi singolare di indagine storica, di metodo sperimentale, di ermeneutica, di riflessione epistemologica e di creatività letteraria, il tipo di interrogazione che circola nella sua opera è certamente filosofico. Ma è altrettanto vero che la sua ricerca non è mai riconducibile a un chiaro orizzonte disciplinare. Ora, il senso di questa particolare preoccupazione foucaultiana, di non lasciarsi ridurre ad un terreno disciplinarmente riconoscibile, è sicuramente cruciale per la storia del pensiero del Novecento e passa attraverso l’uso che Foucault ha fatto di Nietzsche, ma non ce ne occuperemo in questa nota.
In un saggio del 1968, scritto per Jacques Le Goff («Le devianze religiose e il sapere medico», Archivio I, pp. 170-177), Foucault torna sul tema della nascita recente dell’approccio linguistico al metodo in medicina (il riferimento valga come esempio per l’affermazione “è solo da un secolo e mezzo, e non sin da quel povero Ippocrate, che la medicina lavora sul rumore per trarne qualcosa come un messaggio”): nel dibattito del XVI secolo sull’intervento demoniaco nella realtà mondana — spiega Foucault — quella che sembra essere una vera e propria medicalizzazione del concetto di possessione è in realtà un tentativo di costringere i nuovi linguaggi a svolgere un ruolo di sostegno della verità teologica. Non c’è ancora quel passaggio verso Balint che per alcuni è invece già sempre in cammino nella medicina occidentale. 
 

 
 
Vincent Ward, What Dreams May Come, 1998
 
 

La “Communitas” secondo Roberto Esposito

30 Mag
«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot
 

 

La “Communitas” secondo Roberto Esposito

> di Daniele Baron
1. Etimologia del termine communitas
Nel libro Communitas. Origine e destino della comunità il filosofo Roberto Esposito intende prendere le distanze radicalmente da modi di intendere la comunità che potremmo definire “classici” ed introdurre un nuovo modo di pensarla.
Partendo dalla constatazione che mai come nella riflessione contemporanea il concetto di comunità è al centro del discorso (ad esempio nella sociologia organicistica della 
Gemeinschaft, nel neocomunitarismo americano e nelle varie etiche della comunicazione), afferma subito che proprio il modo in cui viene affrontato l’argomento ha per conseguenza di mancarlo: insistendo sul proprium, sul considerare la comunità come un pieno o come un tutto, le concezioni dominanti in filosofia politica la riducono ad una proprietà dei soggetti, vale a dire a ciò che li accomuna: una qualità che si aggiungerebbe loro facendone soggetti anche di una comunità.
Infatti, se pensiamo ad una possibile definizione del termine “comunità” viene spontaneo richiamare alla mente termini quali bene comune, o comune appartenenza, e pertanto caratterizzarla come un “avere in comune”.
Per rovesciare tale prospettiva l’analisi di Esposito si appunta sull’etimologia del termine latino 
communitas: in essa infatti si annida l’impensato della comunità, la sua verità paradossale.
Riportando qui in estrema sintesi la fine ricerca di Esposito sull’etimo (per un approfondimento: cfr. 
Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998, 2006, pp. X-XIII) si può dire che da essa risulta che il termine munus (da communitascum – munus) significa originariamente dono inteso come dovere, come obbligo e in ultima analisi denota ciò che non è proprio, il contrario del proprio, ciò che inizia là dove finisce il proprio.
«Il 
munus che la communitas condivide non è una proprietà o una appartenenza. Non è un avere, ma, al contrario, un debito, un pegno, un dono-da-dare. E dunque ciò che determinerà, che sta per divenire, che virtualmente già è, una mancanza» (Ibidem, p. XIII).
Nella comunità gli individui sono espropriati della loro proprietà più propria, vale a dire della soggettività: non sono più soggetti o lo sono solo in quanto soggetti della propria mancanza, della mancanza del proprio; il soggetto per entrare nella comunità deve alterarsi ed uscire da sé.
Ciò che lega i soggetti nella comunità, dunque, non ha nulla di rassicurante, non viene avvertito da essi come indolore, poiché sembra caratterizzarsi come la loro fine, la loro morte. Da questa insidia deriva la tentazione, poi tradottasi in realtà nella filosofia moderna, di far fronte al pericolo del 
munus procedendo alla sua immunizzazioneImmunitas nel nuovo lessico filosofico proposto da Esposito è il termine opposto a communitas. Proprio l’opposizione di questi due termini gli consente di tentare una lettura rinnovata del pensiero filosofico sulla comunità e di riscrivere così una parte della storia della filosofia.
2. La paura: Hobbes
Hobbes viene individuato da Esposito come paradigma del tentativo nella filosofia moderna di immunizzazione della comunità, di sottrazione di ciò che ha di più intimo. L’antropologia alla base della teoria politica di Hobbes può essere interpretata come una reazione a ciò che di perturbante caratterizza l’essere insieme, il cum.
In Hobbes la
 paura è al principio della politica, ciò che è originario.
Di che cosa hanno essenzialmente paura gli uomini nello stato di natura (che precede in quanto origine lo stato di diritto)? Della morte. La paura nello stato di natura è collegata al timore atavico della morte, a ciò che nell’uomo si oppone all’istinto innato di autoconservazione. Il massimo dei mali naturali, la morte, è ciò che l’uomo, secondo Hobbes, tenta di fuggire più di ogni altra cosa. E’ la condizione mortale a spaventare l’uomo in generale. Ciò che occorre sottolineare è che la paura della morte nello stato di natura viene avvertita maggiormente, poiché si è in costante pericolo di soccombere. Rovesciando e negando il presupposto aristotelico della naturale socievolezza dell’uomo, Hobbes per spiegare tale pericolo teorizza uno stato di natura con individui caratterizzati dalla volontà di nuocere all’altro (oltre che dal già menzionato istinto di autoconservazione); ciò si traduce in ultima istanza in uno stato di guerra tra tutti, 
erga omnes. Infatti, alla volontà di nuocere all’altro e conservare sé non è correlata altrettanta differenza di forza che possa permettere all’uno di prevalere sull’altro.
Nello stato di natura gli uomini sono uguali tra di loro e tale uguaglianza si concretizza nella medesima capacità di uccidere e nella possibilità di essere uccisi. Da qui si genera dunque una situazione insostenibile di continua paura e guerra, nella quale il rapporto tra individui non può che essere distruttivo.
Per Esposito è di particolare interesse la soluzione adottata da Hobbes per uscire da questo stato: nel passaggio dallo stato di natura allo stato di diritto viene significativamente eliminato 
ogni legame sociale. Se la relazione comunitaria lasciata a sé è causa di delitto e guerra, allora è necessario unire gli uomini mediante un patto, un contratto, che li renda immuni dal contatto gli uni con gli altri, è necessario unire mediante la “dissociazione”, eliminare del tutto il cum, il legame che tiene uniti gli individui.
«Gli uomini vanno adesso associati nella modalità della reciproca dissociazione, unificati nella eliminazione di ogni interesse che non sia quello puramente individuale. Artificialmente accomunati nella sottrazione della comunità» (
Ibidem, p. 12).
Esposito sottolinea, inoltre, come le caratteristiche dispotiche dello Stato tratteggiato da Hobbes siano una conseguenza delle sue premesse e come pertanto siano causate da quella che Esposito denomina, con felice espressione, l’
arcaicità del moderno: l’origine, che si pensava rimossa per sempre, sopravvive nel tempo del suo congedo. La violenza originaria caratterizzante lo stato di natura permane nella violenza dello stato assoluto, nel Leviatano. Infatti, di fronte al patto di dissociazione tra individui, che determina la loro unione mediante la sottrazione della comunità, sorgono inevitabili obiezioni: «Come derivare un potere positivo dalla somma di tante negazioni? E’ pensabile che da un insieme di passività scaturisca un potere positivo? E poi – da parte dei sudditi – perché mai dovrebbero rinunciare a ciò che già hanno a favore di un’entità ad essi esterna?» (Ibidem, p. 15).
Hobbes per ovviare a tali difficoltà adotta la soluzione della
 teoria della autorizzazione. Per questa teoria non solo gli individui con il patto depongono un diritto, ma autorizzano una persona rappresentativa (i.e. il sovrano) ad agire al loro posto, conservando così il ruolo di soggetti per ciascuna delle sue azioni. Ciò, tuttavia, ha per conseguenza l’effetto di sciogliere il sovrano da ogni controllo, poiché rimane l’unico soggetto a conservare il diritto naturale in un contesto in cui tutti lo hanno deposto. La teoria dell’autorizzazione, che aveva come scopo quello di ridurre la trascendenza del potere del sovrano sui contraenti il patto, ha come effetto paradossale quello di accentuarla al massimo grado.
«Essere identici al sovrano significa consegnargli interamente la propria soggettività (…). Da questo punto di vista, allora, non è – come si sarebbe portati a supporre – la distanza, la trascendenza, ma l’identità del sovrano rispetto ai sudditi a mettere in moto quel dispositivo sacrificale che l’autorizzazione avrebbe dovuto bloccare e che invece finisce per potenziare al massimo livello» (
Ibidem, pp. 16-17).
3. La colpa: Rousseau
Rousseau si pone come l’avversario filosofico di Hobbes, come l’anti-Hobbes, per quanto concerne il pensiero sulla comunità.
La critica principale che rivolge al filosofo inglese è di aver confuso lo stato di natura con lo stato civile, di averlo descritto con tratti storici derivati dalla società del tempo. Per Rousseau, invece, lo stato di natura è una dimensione che sfugge affatto alla storia, un cominciamento 
astorico. Ecco perché secondo il suo punto di vista non è né una situazione conflittuale né pacifica, bensì un puro negativo, la mancanza di ogni rapporto tra gli uomini, un’origine logica.
«L’origine – paradossalmente – è nominabile solo dal punto di vista della storia che la nega; così come la natura dal lato della sua necessaria denaturazione. (…) L’innocenza non è tematizzabile che a partire dall’angolo di visuale aperto dalla sua perdita: dalla colpa che la perverte e la deforma» (
Ibidem, p. 34).
Rousseau, tuttavia, non rimane fedele alla logica interna al suo discorso, secondo Esposito, poiché tenta una definizione positiva dell’origine e ciò non può che portare all’aporia di cercare la comunità 
positiva in uno stato alternativo alla società di fatto, con individui isolati tra di loro.
Il suo discorso dunque slitta verso una contrapposizione tra un
 prima (lo stato di natura) ed un dopo (lo stato di diritto) legati dalla caduta, dalla degenerazione. La storia, la società, la tecnica, il tempo e la morte, troverebbero la loro spiegazione nella caduta a partire da quello stato puro ed innocente che verrebbe prima.
Se, da un lato, Rousseau parte da una critica giusta ad Hobbes, sottolineando come nella sua concezione sia assente l’idea di comunità e come gli individui siano uniti solo dalla comune schiavitù, dall’altro, giunge ad una caratterizzazione dello stato di natura modellata proprio sul medesimo paradigma, quello di un individuo chiuso nella sua perfetta compiutezza.
«Egli spezza il nesso consequenziale tra individualismo e assolutismo stabilito da Hobbes: ma lo fa attraverso una ridefinizione dello stato naturale connotata in chiave ancora più assolutamente individualistica» (
Ibidem, p. 40).
Se per Hobbes come per Rousseau la felicità dell’uomo consiste nella identificazione con sé, con la propria più intima essenza, allora la comunità intesa come relazione non è più possibile. Come può infatti questa unità originaria rapportarsi con l’altro da sé?
Così si spiega la deriva totalitaria del modello di Rousseau: mediante la compenetrazione reciproca del modello comunitario e di quello individuale, mediante il tentativo di disegnare la comunità sul profilo dell’individuo isolato ed autosufficiente.
Il racconto di Rousseau sulla comunità si traduce in un
 mito che può essere inteso attraverso il passaggio dall’uno individuale all’uno collettivo.
«Nel mito, precisamente, di una comunità trasparente a se stessa in cui ciascuno comunica all’altro la propria essenza comunitaria. Il proprio sogno di autoimmanenza. Senza nessuna mediazione, filtro, segno che interrompa la fusione reciproca delle coscienze; senza nessuna distanza, discontinuità, differenza nei confronti di un altro che non è più tale perché fa parte integrante dell’uno; che è, anzi, già l’uno che si perde – e si ritrova – nella 
propria alterità» (Ibidem, p. 43).
4. La legge: Kant
Kant vuole superare le contraddizioni in cui cade Rousseau; desidera evitare ogni deriva mitica della comunità immettendo una differenza all’interno della sfera della volontà; la volontà in Kant, a differenza che in Rousseau, non è più assoluta, ha al suo interno uno scarto, che è introdotto dalla legge.
Le legge è ciò che per Kant viene prima rispetto alla volontà e fonda la comunità. Per Kant lo stato originario di natura è caratterizzato dalla possibilità del male, altrimenti la legge non sarebbe necessaria. A differenza del filosofo francese che parla di una caduta da una condizione di innocenza allo stato di colpa e che tratteggia perciò lo stato di natura come privo del male, per Kant la libertà originaria contiene già in sé il germe contrario rispetto alla legge, il male.
E’ interessante a questo punto vedere come Kant riesca a conciliare la libertà con il male: non vi è infatti alcuna predeterminazione nella precedenza del male rispetto alla libertà.
Infatti, «se siamo necessariamente portati al male, che ne è, della libertà stessa? In che senso possiamo continuare a chiamarci liberi? Come si concilia questa libertà con la naturalità del male?» (
Ibidem, p. 60).
Kant distingue tra una origine razionale ed una naturale; il male per Kant non è riducibile ad un impulso naturale, ma è una massima che il libero arbitrio dà a sé.
«Tale duplicazione differenziale serve a Kant per rendere compatibile il principio della naturalità del male con quello dell’assoluta libertà. Essi sono compossibili perché sono cooriginari. E’ vero che il male, essendo innato, sta prima dell’atto che lo pone in essere. Però tale preesistenza va interpretata secondo un criterio razionale ma non anche temporale. Per non entrare in contraddizione col principio di libertà – con la libertà in quanto origine – è necessario pensare anche il principio del male, anziché come un impulso naturale determinante, come una massima, in questo caso cattiva, che il libero arbitrio dà a se stesso» (
Ivi).
Esposito mostra come, tuttavia, il discorso di Kant, a mano mano che procede, moltiplichi le antinomie interne.
«Il male è ciò nonostante imputabile alla nostra libera scelta. E’ liberamente innato e necessariamente libero. Nessuno dei due punti di vista può essere sacrificato all’esclusività dell’altro» (
Ibidem, p. 61).
Mentre nella 
Fondazione della metafisica dei costumi Kant intende ancora dedurre in modo trascendentale il principio morale dalla libertà della volontà, nella Critica della ragione pratica rovescia il procedimento posponendo la libera volontà al “fatto” della legge. La legge morale nella Critica è un Faktum teoreticamente indeducibile, che precede il bene, il male e la libertà. Tuttavia, la legge non impone alla libertà i suoi comandi. Si profila perciò un circolo vizioso tra legge e libertà, che può essere, se non spezzato, quanto meno inteso considerando la circostanza per cui l’uomo appartiene a due ordini, due piani: quello intellegibile dei fini e quello sensibile delle cause efficienti. Mentre sul piano intellegibile c’è coincidenza tra libertà e legge in base al comune principio di ragione, sul piano sensibile divergono tra di loro, il concetto di libertà entra in contraddizione con quello di legge.
Questo discorso riportato sul piano della comunità conduce Kant alla distinzione tra la comunità etica, che va intesa come idea della ragione, e la realtà concreta della comunità politica. La comunità etica appare come qualcosa di meramente possibile, la cui realizzazione sembra remota tanto che in ogni caso non potrà mai coincidere con la comunità esistente.
«La frase etica non può essere collegata a quella politica che dal fragile ponte del come se. Ma sotto il ponte passa un abisso invalicabile. Il rapporto resta puramente analogico: può esprimersi attraverso segni, simboli, emblemi – come l’entusiasmo per la rivoluzione – ma non per prove ed esempi storici. Che, anzi, regolarmente, lo sconfermano» (
Ibidem, p. 65).
L’abisso che separa la comunità etica da quella politica è incolmabile tanto che a prima vista sembra essere 
impossibile realizzare davvero la comunità.
Esposito, tuttavia, pensa che in Kant sia presente una via alla comunità: il pensiero comunitario del filosofo di Königsberg va ricercato là dove il soggetto sfugge a sé, là dove si verifica una desoggettivazione dell’Io. Questo accade proprio per il carattere non soggettivo della legge, per lo scarto aperto tra la forma della legge ed il contenuto del soggetto. Di fronte al 
fatto della legge, al suo dovere, il soggetto appare passivo; la legge non prescrive alcun contenuto, ma solo l’obbligo formale di obbedirle: non dice cosa il soggetto deve fare, ma semplicemente gli impone di agire in modo da poter costituire la sua volontà a principio di legislazione universale. La legge sembra corrodere il soggetto, venire da fuori e portarlo fuori, diventando sostanzialmente inadempibile. La finitezza del soggetto sancisce l’impossibilità della comunità prescritta dalla legge kantiana.
«Quella finitezza – si è detto – esprime l’impossibilità della comunità: è proprio riguardo alla sua realizzazione che risultiamo irrimediabilmente finiti. Ma essa, insieme, è anche ciò che apre la possibilità di pensarla per la prima volta (…) Non bisogna evitare la contraddizione – e neanche il paradosso che ne deriva – perché è essa a costituire lo strappo decisivo che Kant segna rispetto a tutta la tradizione filosofica precedente (…) che la comunità sia impossibile vuol dire che 
quell’impossibile è la comunità» (Ibidem, p. 71).
5. L’estasi: Heidegger
Secondo Esposito, Heidegger è l’unico che ha saputo riprendere il discorso di Kant sulla comunità. Kant era giunto di fronte all’abisso della soggettività che si apre alla sua costitutiva alterità, al punto di rottura del soggetto metafisico ed era dovuto indietreggiare.
Questo punto di rottura è il 
tempo, la sua struttura temporale che sottrae il soggetto all’identità sospendendolo alla contingenza o alla finitezza.
«Questo è ciò che Heidegger intende (…) per “esistenza” o “estasi” del, anzi 
comeDasein: intanto il fatto che a trascendere è il soggetto, e non le cose rispetto ad esso; e poi, soprattutto, che si tratta di una trascendenza non contrapposta, ma interna e coincidente con l’immanenza. Il suo eccesso. Ovvero non un semplice fuoriuscire da sé, ma uno ‘stare in sé’ nella forma eccentrica del suo ‘fuori’» (Ibidem, p. 84).
A differenza di Kant, dunque, in cui la legge viene per prima, in Heidegger la legge deve essere a sua volta preceduta da un altro, da un’altra legge che è precisamente un fuori-la-legge nella misura in cui la pone in essere. Lo spazio che si apre prima della legge è l’ontologia. L’alterità, infatti, non può essere né trascendente, né trascendentale.
Ciò che sfugge a Kant perciò è che l’essere della comunità, il suo 
cum, è l’essere costitutivo dell’Esserci in quanto essere-nel-mondo. La comunità non è una potenzialità a venire o una legge anteposta al nostro esserci, ma quell’Esserci nella sua costituzione «singolarmente plurale» (Ibidem, p. 90).
Vale la pena riportare un passo chiarificatore del libro di Esposito che rivela qual è la grande intuizione di Heidegger a proposito della comunità:
« [La comunità] Non appartiene né al nostro passato, né al nostro futuro – ma a ciò che adesso 
siamo. La nostra estasi. Noi in quanto estatici. Da questo punto di vista qualsiasi sforzo di raggiungere un fine non è meno inutile di quello di riappropriarsi di un’origine a un certo momento perduta. La comunità non sta né prima né dopo la società» (Ivi).
Bisogna sottolineare, tuttavia, che il senso della comunità così intesa è e rimane l’
incompiutezza. Gli individui non sono uniti da un pieno, ma da una mancanza, da un vuoto, che già sono. Lo scopo ultimo della comunità, ammesso che si possa parlare di “scopo”, è quello di avere piena consapevolezza dell’improprietà che accomuna i suoi membri. L’essere autentico, infatti, non consiste nel disfarsi dell’inautentico, ma nel prendersene cura.
A questo punto è evidente che in Heidegger la comunità è qualche cosa di impolitico e non una comunità storica, di fatto, nel senso che «possiamo corrispondere al nostro essere in comune solo nella misura in cui lo tratteniamo al di qua di ogni pretesa di effettuazione storico-empirica» (
Ibidem, p. 96).
Questa precisazione è importante perché permette a Esposito di mostrare in che misura lo stesso Heidegger fraintenda sé stesso ed il proprio pensiero negli anni Trenta, aderendo al nazismo. Ciò che è interessante per lui comprendere è come sia potuto avvenire tale auto-fraintendimento da un punto di vista concettuale.
In primo luogo, ciò si spiega perché il tema della comunità, grazie al concetto essenziale di 
Mit-sein, essere-con (per cui il Dasein è già sempre Mit-sein), è introdotto in modo tardivo da parte del filosofo tedesco (nel venticinquesimo paragrafo di Essere e Tempo) dopo che aveva già trattato il Dasein nella sua autonomia.
In secondo luogo, Heidegger non rimane fedele alla sua concezione di “proprio” e “improprio”, per la quale «improprio (…) non è altro dal proprio, ma il 
Dasein stesso conosciuto nella sua più impropria proprietà» (Ibidem, p. 98), ma separando e contrapponendo proprio e improprio, va alla ricerca di un recupero dell’origine ricandendo nella dialettica di presupposizione e destinazione. Ecco allora che egli ricade nel tradizionale mitologema politico-filosofico: vuole parlare affermativamente della origine e ciò comporta la necessità di dare alla comunità originaria un destino che si concretizza nel futuro di una comunità specifica, con una terra e con una storia.
6. L’esperienza: Bataille
Nonostante l’abisso lessicale, stilistico e categoriale che divide Bataille da Heidegger, il loro pensiero non è estraneo ma parte da un interesse comune; c’è una prossimità tra i due pensatori per cui Bataille, secondo Esposito, espliciterebbe il non-detto nel pensiero sulla comunità di Heidegger.
Il loro minimo comun denominatore è il concetto di 
fine della filosofia. Tuttavia, mentre in Heidegger questa fine è un compimento che comporta un nuovo inizio, un nuovo orizzonte e dunque anche un rinnovato compito per il pensiero, in Bataille non c’è nulla di tutto ciò. Bataille spezza la dialettica di origine e compimento.
Bataille si ispira a Nietzsche e rovescia l’interpretazione e il giudizio che Heidegger dà della filosofia di Nietzsche: per Bataille non è Nietzsche a rimanere all’interno della tradizione filosofica occidentale a cui metterebbe fine, bensì lo stesso Heidegger nella misura in cui pensa la fine come compimento che apre lo spazio a nuove possibilità di sapere.
Per Bataille la fine della filosofia non rappresenta affatto il suo compimento, ma il 
non-sapere, la definitiva incompiutezza (inachèvement). Il non-sapere non è da intendersi come limite o non-conosciuto (ignoto) rispetto al sapere, poiché in tal caso sarebbe ancora una alterità esterna rispetto al limite del sapere, ancora potenzialmente conoscibile; il non-sapere è l’assoluto inconoscibile. Il non-sapere, infatti, non è separato dal sapere (altrimenti entrerebbe in gioco ancora la dialettica), ma coincide con esso, con il suo culmine.
Esiste a questo punto la possibilità di parlare del non-sapere in maniera affermativa? Nella filosofia di Bataille questa possibilità è espressa dal concetto di 
esperienza interiore.
L’esperienza interiore è il punto in cui la vita si ritrae, spinge la vita sul suo “fuori”, una specie di esperienza della non-esperienza; essa è, infatti, un viaggio senza meta e senza ritorno che mette il soggetto fuori di sé, è una destituzione della soggettività e come tale 
impossibile.
L’epicentro di questa dissoluzione del soggetto, del non-sapere, è la comunità nella quale il soggetto fa dono (
munus) di sé.
«Il non sapere consiste nel tenere aperta l’apertura che già siamo. A non occultare, ma ad esibire, la ferita 
nella e della nostra esistenza (…). Abbiamo visto come l’esperienza, per Bataille, coincida con la comunità in quanto impresentabilità del soggetto a se stesso. Il soggetto non può presentarsi. Si manca» (Ibidem, p. 123).
Per Esposito, Bataille rappresenta il più radicale anti-Hobbes.
«Se Hobbes è stato fin dall’inizio indicato come il più conseguente sostenitore di una immunizzazione volta a garantire la sopravvivenza individuale; se a questo fine – in nome della paura della morte – egli non ha esitato a teorizzare la distruzione non solo di ogni comunità esistente non coincidente con lo Stato, ma dell’idea stessa di comunità umana; ebbene Bataille ne costituisce il più drammatico oppositore: contro l’ossessione di una 
conservatio vitae spinta al punto di sacrificare ogni altro bene al proprio conseguimento, egli riconosce il culmine della vita in un eccesso che la conduce continuamente a ridosso della linea della morte» (Ibidem, pp. 128-129).
Bataille consente a Esposito di giungere a conclusione del suo discorso ricostruttivo, poiché rappresenta la massima espressione della verità paradossale della comunità, il culmine e l’antitesi rispetto al punto dal quale si era partiti, e gli permette di effettuare una breve ricapitolazione della sua interpretazione della storia della filosofia fondata sulla originale opposizione tra communitas ed immunitas.
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ANDREA INGLESE – GHERARDO BORTOLOTTI – ANDREA CORTELLESSA

30 Mag

 

 
 
 
ANDREA INGLESE – GHERARDO BORTOLOTTI – ANDREA CORTELLESSA
da Vladimir D’Amora (Note) Lunedì 19 marzo 2012 alle ore 16.23
 
È difficile dire se i testi di Gherardo Bortolotti debbano essere catalogati nel genere poesia. Non credo che questo sia neppure un problema sentito come particolarmente rilevante per il loro autore. È indubbio, però, che questi testi interroghino in modo radicale la scrittura poetica, mostrando ad essa un campo di possibilità ancora pochissimo esplorate. In Italia esiste una tradizione della poesia in prosa, anche se si tratta di un filone minoritario, che ha i suoi maestri non tanto in attardati continuatori della cosiddetta “prosa lirica”, ma in autori importanti quali Camillo Sbarbaro, attivo fin dai primi decenni del secolo scorso, o Giampiero Neri, per citare uno dei poeti in prosa più recenti. Ma Bortolotti sembra difficile da ricondurre anche a questa tradizione, quasi che la lontananza rispetto a modi e vocabolari del genere poetico sia ormai tale, da annunciare una sorta di genere ulteriore o di confine, ancora da definire nei sui tratti caratteristici. Diciamo subito che non vi è nessun compiacimento postmoderno né iperletterario, tale da esaurirsi in una semplice ibridazione o parodia dei generi esistenti. D’altra parte è impossibile collocare Bortolotti nel campo della semplice narrativa, sia essa incentrata sul racconto breve o sul romanzo. Anzi, per certi versi il  lavoro di Bortolotti si caratterizza per essere anti-narrativa, per dimostrare come ogni forma di narrazione sia presuntuosa di fronte a quella collezione di istanti irrelati di cui sono costituiti le nostre vite o rispetto a certi scenari che, all’opposto, rinviano alla monotonia del fotogramma bloccato. Se la poesia, favorisce l’adesione lirica e verticale alla pienezza dell’attimo, ricercando nella discontinuità del tempo gli elementi di senso che la routine della vita sembra azzerare, ciò non accade in Bortolotti, dove ogni attimo si distingue dagli altri, in quanto riesce a manifestare in modo più lancinante la sua vuotezza, il suo carattere ripetitivo e seriale. D’altra parte, non vi sono svolgimenti narrativi plausibili, ai quali fornire credito. La disponibilità degli intrecci è tale, così massiccia e gratuita, che essa non si distingue dalla simultanea offerta di una gran quantità di merci, che ritarderà solo di qualche tempo il bisogno dell’individuo di senso e di realtà. Né la lirica dunque né il romanzo, possono davvero esprimere, per Bortolotti, questa nostra condizione di comparse nella società dello spettacolo. Queste brevi prose, però, costruite con straordinaria perizia, capaci di unire il tratto aforistico e lucido del miglior saggio novecentesco con un tono struggente e nostalgico, costituiscono in definitiva un’esplorazione della nostra vita considerata come “resto”, come residuo non riscattabile. Ognuno di questi frammenti, infatti, sembra spingere sullo sfondo le “grandi questioni” dell’esistenza, lasciando che l’automatismo delle abitudini, il tremolio delle immagini artificiali e l’alone ideologico delle merci occupi interamente il campo.
Nel 2009, è stato pubblicato presso Lavieri, il volume Tecniche di basso livello, che raccoglie una parte consistente del lavoro di questo autore. Bortolotti è però attivo anche su altri fronti. È redattore, assieme ad Alessandro Broggi, Marco Giovenale, Andrea Raos, Michele Zaffarano e il sottoscritto, del blog GAMMM(gammm.org) che si dedica alle varie forme di letteratura sperimentale, con particolare attenzione per la poesia statunitense e francese. Inoltre, insieme a Zaffarano, è anche redattore della collana “Chapbooks” per l’editore Arcipelago, presso cui ha tradotto e curato testi del poeta canadese Jeff Derksen e degli statunitensi K. Silem Mohammad e Rodrigo Toscano.
 
 
 
 
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Gherardo Bortolotti, da “Tecniche di basso livello” (2009)
 
 
 
 
 
 
236-237
 
236. Nella certezza di essere dalla parte del torto, ci limitavamo a sollevare questioni di procedura, di buone maniere, nei confronti dello stato delle cose. Ci chiedevamo la ragione di episodi quotidiani, imperscrutabili come la forma delle nuvole. Al telefono, guardavamo di sbieco, seguendo le fughe dei battiscopa verso angoli retti, metafisici.
237. Nemmeno all’altezza dei nostri cellulari, diventavamo adulti e scoprivamo cose che non avremmo mai più avuto il tempo di capire davvero, come le macchine di Turing, Lacan, la teoria dei sistemi. I termini della nostra personalità erano i nostri piedi, le emicranie psicosomatiche, la cellulite.
 
146-147
 
146. Tutto sembrava implicare che ci dovessimo limitare alla sola presa visione. Le miserie per strada, gli orrori tematizzati dal telegiornale, il vuoto che si scavava nella nostra cittadinanza erano solo regioni di particolari più o meno coerenti, in un quadro più vasto, impossibile a vedersi intero, comunque estraneo.
147. Le nostre avventure quotidiane si svolgevano all’ombra di grandi figure di persone famose, modelle, leader internazionali che si deformavano con la propagazione nei media. Ci svegliavamo la mattina per andare al lavoro, ripetendoci, nell’intimo della nostra coscienza, nomi come “Kate Moss”, “Bill Gates”, “Ahmadinejad”.
 
198-199
 
198. Sperando in un segno di benevolenza, leggibile nelle coincidenze dei semafori o nelle proposte della programmazione televisiva, rimandavamo a data da destinarsi la disamina dei nostri sospetti (circa il nostro fallimento, circa la strategia di ritiro dall’Iraq). Parlavamo, spesso, di scenari possibili e di linee narrative in cui non toccava a noi morire ma, poi, non ne facevamo nulla e tornavamo a casa, per masterizzare un film, per rispondere alla posta.
199. Dall’attesa della morte, ci distraevano le pubblicità delle agenzie di viaggio. Come robot buoni, ci incamminavamo dentro lunghi vicoli ciechi che costeggiavano gli anni dei nostri acquisti, i pomeriggi da soli, le visite dai parenti, ed in genere si chiudevano in qualche reparto di chirurgia, in istituti per malati terminali all’avanguardia.
 
134-135
 
134. Le testimonianze sembravano provare il contrario ma, in effetti, eravamo vivi. All’inizio della stagione televisiva, quando la sera ci trovava impreparati, senza abitudini, di colpo ci sentivamo respirare, vedevamo la nostra ombra sul muro del bagno. Alcuni particolari irrilevanti ci tornavano alla mente, alcune gaffe, alcuni gravi sbagli commessi nei confronti degli altri.
135. Frequentavamo distrattamente il nostro corpo, trovandoci spesso nella posizione di chi non crede del tutto a quello che vede. La pubblicità delle cucine sembrava l’esempio di una verità più piena e, a conti fatti, più plausibile.
 
286-287
 
286. Nella fondazione dedicata ai suoi ricordi, bgmole raccoglieva particolari incongruenti, scene vergognose, schemi di illusioni e coincidenze. Nel week-end, quando le ore tornavamo a durate naturali, affrontava il pomeriggio principalmente dormendo e, in alcuni casi, leggendo la posta on line.
287. Chiamate a raccolta le evidenze di una nostra stagione passata, di una giovinezza moderata, solitaria e squallida, uscivamo allo scoperto e ammettevamo di aver fallito in tutto: gusti musicali, amori, letture. Rimanevamo sulla soglia di un’ulteriore triste conclusione, toccando una cartolina trovata nel cassetto, un vecchio portachiavi, una t-shirt di Morrisey e pensavamo, involontariamente, ad altro.
 
15-16
 
15. Sulla cresta del progresso, forti della nostra acqua calda, degli antibiotici, delle reti a banda larga, guidavamo nel traffico alla volta del futuro e delle nostre occupazioni transitorie. Impressioni di errori compiuti e appartamenti in disordine. Lasciavamo la mossa successiva al fato ed i nodi arrivavano al pettine di qualche mano altrui.
16. Dopo il lavoro, nei golfi di occupazioni inutili, bgmole perdeva porzioni della sua persona, intere stagioni di pensieri a cui non era possibile risalire, ed arrivava all’ora dei pasti con poche cose da dire, con uno sguardo sottilmente isterico. Si cibava, guardando le briciole ai piedi del suo bicchiere, le loro ombre minime sulla tovaglia, convinto dell’imminente rivelazione che tutto questo era una finzione, una specie di effetto ottico troppo a lungo ignorato.
 
97-98
 
97. Passeggiando come un contemporaneo, hapax aveva una percezione distratta delle vaste strutture di dati, di gerarchie d’immaginario che attraversavano il suo cielo, come astronavi piramidali sui quartieri della periferia. Molte delle cose che gli venivano alla mente, lungo il cammino, avevano implicazioni complesse, di cui non riusciva a dare conto. Le pezze dell’asfalto, i particolari delle macchine parcheggiate, le ombre nei giardini condominiali, ad un certo punto, riempivano il suo sguardo, la sua coscienza.
98. Lontani dagli abusi sui clandestini, seguivamo le vicende della nostra serie preferita e ci preparavamo ad esprimere opinioni in merito al giorno d’oggi ed alle mutazioni climatiche. I nostri pensieri tornavano spesso ai giorni della nostra infanzia ed ai tempi in cui il mondo, e la merce, avevano aspetti d’innocenza e di mistero.
 
130-131
 
130. Ci muovevamo nei territori di una nazione profonda, di una repubblica a cui partecipavamo con l’acquisto, con la scelta del canale, con i commenti in rete. In pochi avevano nozione dello stato delle cose.
131. Ci ripetevamo spesso che non era detta l’ultima parola e che la nostra carriera di contemporanei poteva ancora avere una svolta risolutiva. Le notizie dall’Iraq e dall’Afghanistan erano sempre più frammentarie. Rimaneva, in molti, la sensazione di aver scordato, o taciuto, un particolare significativo, nel passaggio all’impiego ed all’età adulta.
 
194-195
 
194. Facendo le ore piccole guardando la televisione, kinch finiva per trovarsi in strane, quiete regioni notturne, mentre la periferia era attraversata da lontani rumori. In quel silenzio, le inquadrature trasmesse dalle tv locali, i pezzi di vecchi film anonimi, le televendite, rivelavano messaggi in codice lunari, accennando a qualche ricordo inorganico, prenatale.
195. Negli angoli dell’appartamento venivano ad accumularsi questioni irrisolte, concernenti la migliore o peggiore qualità della vita che conducevamo. Le distanze tra lo stato delle cose e la curva dei nostri progetti aumentavano il senso di una conclusione incongrua, di una specie di grosso equivoco sull’estensione ed il valore della nostra vita. Senza morali da trarre, guardavamo il telegiornale, affascinati dalle immagini in movimento.
 
 
 
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ANDREA CORTELLESSA (NAZIONE INDIANA, 29 settembre 2007 at 12:09)
 
Avevo ascoltato Gherardo Bortolotti leggere suoi testi a Romapoesia due anni fa, invitato da Marco Giovenale (e a Giovenale si deve anche, qualche mese fa, la pubblicazione di altre di queste lasse, «Soluzioni binarie», nella sua bella collanina Felix). Era la cosa meno inquadrabile e dunque, per me, più interessante. Già allora, peraltro, mi veniva da obiettare, o meglio osservare, che quella presentata in un contesto poetico, soffrendo mi pare per la sua irriducibilità alle convenzioni del medesimo, era una scritturainteressante, invece, per il suo aspetto narrativo. Certo, non narrativocome s’intende oggi la narrativa pret à porter di cui ci deliziano, ahinoi, i cataloghi editoriali. Né narrativa come si dice narrativa di certa poesia ronronzante in camera da letto. Ma semmai “denarrativa”, nel senso in cui chiama le sue “denarrazioni” Mark Strand. (Pur usando, ovviamente, strumenti tutti diversi.)Qualche tempo fa su Absolut Poetry era stata postata una parte dei materiali letti da Bortolotti a Romapoesia. I commenti insistevano sul cut-up della tradizione del moderno, sulla loro algida noncomunicatività ecc. Già allora mi pareva che si fosse fuori strada. Più ancora di quelli, questi nuovi testi mi colpiscono, al contrario, per una loro abbandonata (e abbandonata proprio perché con tanto rigore irreggimentata) inconsolabilità. Per la pacata, quieta e appunto inconsolabile disperazione che esprimono, specie quando usano la prima persona plurale. Come dice un frammento qui non incluso, 171, «Una nostalgia estranea, feroce, disperata».In un altro, 176, si offre un titolo segreto: «Ai piedi della democrazia». È questa, infatti, una vera scrittura politica, una delle poche credibili che oggi sia dato leggere. Se è vero che la politica che ci è data in sorte muore strangolata dal non avere più la minima ampiezza di respiro, il breve giro di questi box di microvita associata è allegoria della nostra soffocante cellularità. Del nostro essere monadi pallide e svogliate, scarsamente convinte dell’esistenza di una qualsivoglia realtà al di fuori della loro esperienza immediata (eppure, che intensità quando questo schermo sembra infrangersi: «In alcuni scorci della giornata, nel mezzo del fine settimana, avavamo l’impressione di essere vivi e, quindi, irreali»: 21).Conosco ancora davvero poco del lavoro di Gherardo Bortolotti, e più ne vorrei sapere; ma intanto ringrazio lui, Marco Giovenale e ora Andrea Inglese per aver offerto a me e a tutti la possibilità di cominciare a familiarizzarci con una scrittura davvero interessante.Devo anche aggiungere che in queste settimane per la prima volta scritture interessanti arrivano, prima che per via cartacea, su blog e altre forme di pubblicazione telematica. (L’altra è quella di Babsi Jones.) In questi anni abbiamo discusso, sino a sfinirci, sulle novità promesse da questo canale; ma reali novità di scrittura, sinora, dalle nostre parti non mi pare l’avessero attraversato. Ora, finalmente, si comincia a fare sul serio.
I migliori auguri a G.B., Andrea Cortellessa